Le bugie hanno le gambe corte? (di Fulvio Rubino).

Una ricerca condotta dallo psicologo J.Hancock della Cornell University di New York su alcuni studenti ha determinato che, in media, gli studenti mentono quotidianamente 1.6 volte su circa 6 comunicazioni sociali.

Secondo un’altra ricerca condotta da Bella DePaulo della Università della Virginia, sembrerebbe che la maggioranza delle persone mente almeno una o due volte al giorno, in media nel 20% dei contatti sociali che durano più di dieci minuti.  Inoltre, sempre in base alla ricerca della DePaulo, sembrerebbe che solo il 20% delle bugie vengono scoperte durante il periodo di osservazione.

Tutti dichiariamo di essere convinti che non si dovrebbero dire bugie ma, in realtà, da queste indagine statistiche, tutti diciamo bugie.  E’ anche assodato che, per mantenere la stima in noi stessi ci giustifichiamo con buone dosi di ipocrisia.

Oserei dire, anche, che tutti siamo consapevoli che tutti diciamo bugie.

Forse possiamo anche asserire, che, in alcune situazioni specifiche, le bugie sono inevitabili: non si può certo dire alla vecchia zia che ti chiede come la trovi che ha un aspetto orrendo. Anzi, più una persona è intelligente più dice bugie, a volte per il suo giusto tornaconto, a volte per scansare pretese assurde di altre persone, a volte per gentilezza d’animo. Ma cosa dovremmo fare se è lo Stato a dire bugie?.Nulla questio sul fatto che si possano fare degli errori di valutazione: si può sempre tornare indietro, si può sempre correggere in meglio. Ma il problema esiste se sappiamo della valutazione sbagliata e non la correggiamo, creando un danno per i cittadini.

Se non si applica la trasparenza e, avendo coscienza dell’errore, se non si provvede a correggere l’errore, allora qualcuno potrebbe pensare che chi governa opera contro gli interessi dei cittadini che lo hanno eletto. D’altronde sarebbe mai possibile che l’insieme dei cittadini possano concorrere ad esercitare una forma di governo che vada contro loro stessi e contro il loro stesso benessere?

Veniamo al dunque.

La L.335/95, c.d. Riforma Dini, ha introdotto a partire dal 1996 il sistema contributivo. La successiva contro-riforma Monti Fornero, D.L. 2001/2011 convertito con modificazioni in L.214/2011, ha esteso il sistema contributivo a tutti i lavoratori a partire dal gennaio 2012.

Le particolarità di questo sistema è che la misura della prestazione pensionistica è commisurata a due fattori: alla contribuzione versata durante l’intera storia lavorativa, all’interno del sistema a ripartizione con il metodo della capitalizzazione simulata in cui lo stato “paga interessi” (rivaluta i contributi) in una percentuale pari all’andamento del Prodotto Interno Lordo (PIL);

alla speranza di vita che si attribuisce al lavoratore nel momento della decorrenza pensionistica.

Anche se matematicamente la pensione contributiva è determinata da un semplice prodotto

Pensione = Montante Contributi x Coefficiente

la sua comprensione logica e funzionale è un po’ più difficile innanzitutto perché :

il MONTANTE CONTRIBUTIVO è il montante (totale) finale di un conto corrente figurativo personale, che ogni singolo lavoratore avrebbe in essere presso le casse/fondi previdenziali, in cui vanno a confluire tutti i contributi versati nell’intera vita lavorativa sia dal dipendente che dal datore di lavoro; come tutti i conti correnti anche nel montante contributivo maturano degli interessi composti (definiti RIVALUTAZIONI) che variano di anno in anno in base all’andamento del PIL nell’ultimo quinquennio dell’anno di riferimento;

il COEFFICIENTE DI TRASFORMAZIONE è una percentuale che rappresenta il numero degli anni di speranza di vita che il lavoratore avrebbe dinnanzi a sé al momento del pensionamento.

Così la logica della pensione contributiva è che lo Stato restituisce al lavoratore il risparmio previdenziale (dell’intera sua vita lavorativa) negli anni di vita che ha dinnanzi a sé al momento del pensionamento.

Quindi, il presupposto su cui si basa completamente tutto il sistema contributivo è che più si è giovani al momento in cui si va in pensione più è bassa la pensione perché, avendo una speranza di vita più lunga rispetto ad lavoratore anagraficamente più anziano, la pensione dovrebbe essere pagata per più anni e, quindi, il proprio risparmio previdenziale deve essere restituito (diviso) in più anni.

Ma è veramente così?

Da diverso tempo si chiedono i tassi effettivi di mortalità per categoria di lavoratori ma, né l’ISTAT, né l’INPS, sembrano voler comprendere la richiesta e si chiudono in un mutismo assoluto.

Al compagno Giampaolo Patta, componente del CIV (Consiglio di Indirizzo e Vigilanza) dell’INPS,  è stata consegnata una ricerca statistica condotta sull’eliminazione e dismissioni di prestazioni pensionistiche in essere che rivelerebbe una realtà molto distante da quella propinata e fatta credere in tutti questi anni quale principio fondamentale del sistema pensionistico.

Questa ricerca è talmente disincrona dalla verità dichiarata che la nuova responsabile dell’ufficio statistico (che è stata una componente della commissione governativa per la rivisitazione dei coefficienti di trasformazione) non vuole darne un riconoscimento ufficiale.

L’indagine, i cui grafici sono sotto-riportati, rivelerebbe che le pensioni di anzianità vengono eliminate (perché muoiono i titolari) dopo circa 21 anni mentre le pensioni di vecchiaia  vengono eliminate dopo circa 26 anni. Dal momento che, generalmente, si accede alla pensione di anzianità prima della pensione di vecchiaia in virtù del perfezionamento, una anzianità contributiva massima (40 anni fino al 2011, mentre dal 2012, 41 anni e 6 mesi per le donne e 42 anni e 6 mesi per gli uomini) o  per aver perfezionato almeno 35 anni di contribuzione unitamente ad una anzianità anagrafica minima (possibilità eliminata a partire dal gennaio 2012), ne consegue che l’ètà media di morienza per i pensionati con la pensione di anzianità si aggirerebbe intorno ai 77 anni, mentre quella dei pensionati “per vecchiaia” si aggirerebbe intorno agli 84 anni. Sembrerebbe, così, che la verità non sia “più sei giovani al momento del pensionamento e più vivi”, bensì “maggiori sono gli anni di lavoro e meno vivi”.

E’ come dire: più il nostro corpo è usurato dal lavoro meno speranza di vita abbiamo.

Se questa è la verità, la sua omissione è la grande BUGIA su cui i governi di questi ultimi 20 anni stanno basando le politiche previdenziali che vanno a sfavore di chi avrebbe maggiormente diritto di tutela.

Così, i pensionati per anzianità, che (stando ai dati statici dell’eliminazione delle pensioni) vivono di meno, hanno una pensione calcolata con coefficienti che presuppongono una vita maggiore e, quindi, una pensione più bassa. Mentre i pensionati per vecchiaia, che vivono di più, hanno una pensione calcolata con coefficienti che presuppongono una vita minore e, quindi, una pensione più alta.

UNA GRANDE BUGIA PER UNA EQUITA’ TUTTA AL CONTRARIO.

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