Art. 18: l'agnello sacrificale (di Fulvio Rubino).

 

L'avvio di queste riflessioni sull'art.18 muove dalla definizione di lavoro dipendente al fine di poter comprendere fino in fondo la portata effettiva della questione.

Il lavoro dipendente o subordinato si ha quando un individuo, il lavoratore, in cambio di una retribuzione, cioè di un compenso in denaro, mette a disposizione di un’altra persona o ente la sua energia psico-fisica al fine di realizzare un bene o un servizio nell'interesse del datore di lavoro.

A mio avviso è importante ricordare tale definizione per comprendere fino in fondo che l’essenza del diritto del lavoro si basa sulla condizione che nel rapporto di lavoro subordinato l’oggetto del contratto ha a che fare non con un semplice bene materiale o con un'attività da svolgere, bensì con la persona umana. Infatti, un qualsiasi contratto, generalmente, riguarda “l’avere delle parti”, mentre il contratto di lavoro riguarda non solo “l’avere” per l’imprenditore, ma, per il lavoratore, cura e garantisce “l’essere”, quale condizione per la produzione di qualsiasi bene.

Da tale corrispondenza costituzionale discende la necessità di predisporre e riconoscere una serie di diritti in capo al lavoratore e di limitare i poteri storicamente esercitati dal datore di lavoro: il lavoratore subordinato è la parte debole del rapporto che deve assicurare la realizzazione dell'interesse del datore di lavoro con tutte le energie psico-fisiche, con tutta la sua persona. Sulla base di queste argomentazioni ed evoluzioni storiche e temporali si è sviluppata l'intera normativa, compreso la "statuto dei Lavoratori" (L.300/1970 - Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento.), di cui fa parte l'art.18 (Reintegrazione nel posto di lavoro).

In questo lungo periodo di crisi economico-finanziaria che stiamo vivendo, dove le imprese falliscono o chiudono ed il lavoro sembra venire a mancare, la CROCIATA contro l'art.18 dello Statuto dei Lavoratori, quale simbolo dell'intera normativa protezionistica del lavoro, sembra essere determinata dalla convinzione, propria dell'economia neoclassica, che la maggiore flessibilità, sia salariale che del rapporto di lavoro, porti e determinerà più occupazione.

In realtà, basti andare a leggere i diversi rapporti di ricerca sull'occupazione, a cominciare da quelli dell'OCSE: sin dal 2004, in Italia non esiste un problema di flessibilità del lavoro perché proprio l'Italia è lo stato europeo con la maggiore precarizzazione nel mercato del lavoro. Il Mercato del lavoro italiano infatti, è caratterizzato, più di qualsiasi altro paese europeo, dall'occupazione di bassissima qualità, di brevissima durata, di bassissima remunerazione.

Tuttavia sembra che proprio queste caratteristiche e questa peculiarità italiana rappresenti la motivazione per l'eliminazione dell'art.18: negli ultimi anni solo circa il 30% dei lavoratori è stato assunto con un contratto a tempo indeterminato, quindi, il 70% dei lavoratori, avendo un contratto a tempo determinato (se non proprio di lavoro "autonomo") è escluso dall'applicazione della normativa protezionistica perché non viene licenziato ma, semplicemente, non riconfermato, non prorogato, non rinnovato. Nel 2014, poi, solo il 15,2% delle assunzioni è a contratto indeterminato. Dopo la riforma Monti-Fornero sono esplosi i contratti di brevissima durata: 67,3% in più ed è proprio per questo che la crociata contro l'art.18 assume le vesti di lotta di una sorta di uguaglianza perché non è giusto che solo una piccola parte di lavoratori sia tutelata, per cui, di conseguenza, i lavoratori devono godere delle stesse tutele: logicamente, tutte riviste al ribasso.

Lo specchietto delle allodole sarebbe il "contratto a tutele crescenti" che nasconde dietro, un altro grande IMBROGLIO delle politiche renziane. Dal momento che le tutele crescenti vengono maturate con la maggiore anzianità (in caso di licenziamento, un indennizzo maggiore quanto maggiore è l'anzianità), si verrebbe a creare una maggiore disincronia, SEPARATEZZA generazionale perché la realizzazione delle maggiori tutele si verifica quanto maggiore è l'anzianità e ciò sarebbe in contrasto con ciò che la riforma dichiara (senza contare il fatto che l'aumento dei diritti si potrebbe trasformare in una condizione di maggiore licenziamento da parte dei datori di lavoro che in tal modo si sottrarrebbero alle maggiori tutele).

La riduzione delle tutele e l'aumento della precarietà è da tempo la battaglia ideologica che tutti i governi cercano di portare avanti. Proprio gli esecutivi, che dovrebbero governare e tutelare la maggiore risorsa del loro Stato, i lavoratori, nella loro completezza ed univocità, sono coloro che stanno rovinando l'immenso patrimonio e stanno distruggendo lo stato social-democratico, per abbracciare un liberalismo sfrenato. Ma fino a che punto questa scelta liberista è consapevole da parte dei governi, visto il rilevamento statistico dei risultati in questi anni? E che dire degli economisti, delle diverse scuole, discordi sul fatto che la maggiore flessibilità comporti una maggiore occupazione? Quindi, su quali basi vengono effettuate le scelte di politica economica dei governi?

Alcuni studiosi mettono in risalto che le politiche del lavoro, in ultima analisi, sono determinate dalla minaccia che le imprese oppongono al governo di dislocare i propri investimenti all'estero. Il disinvestimento ridurrebbe il reddito nazionale e, quindi, i redditi individuali, riducendo la possibilità che i cittadini rinnovino il proprio consenso al Governo in carica. Inoltre, sui governi gravano i percorsi di marcia specificatamente indicati da una troica, cioè da un organismo di controllo informale, costituito da rappresentanti della Commissione Europea, della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale (vedasi lettera della BCE al Governo Italiano del 05.08.2011).

Per l' "Europa" (in realtà non si comprende politicamente chi sia questa Europa), queste riforme, art.18 compreso, non sono altro che un insieme di atti che cercano di ridefinire la distribuzione del reddito a danno dei lavoratori dipendenti e a favore dei ceti forti. Una conseguenza di questa modificazione è che si genera maggiore immobilità sociale (l'Italia ha il più alto indice insieme a Gran Bretagna e Stati Uniti d'America), per cui, un figlio di operaio avrà sempre maggiore difficoltà a diventare dottore (per ricordare una vecchia canzone di Paolo Pietrangeli).

Da tempo è stata compiuta la scelta che l'Europa intera deve diventare una economia orientata alle esportazioni. Per fare ciò è necessario attuare una politica di forte moderazione salariale riducendo le retribuzioni dei lavoratori dipendenti. In questa logica, l'indebolimento del potere contrattuale dei lavoratore diventa indispensabile. In un certo senso, la sequenza che si vorrebbe attuare è: indebolire il potere contrattuale dei lavoratori (e, quindi, dei sindacati che li rappresentano), in tutti i modi possibili ed immaginabili, perché i salari si ridurrebbero, le imprese potrebbero abbassare i prezzi (perché diminuirebbero i loro costi), diventando più competitive sul mercato estero, così aumenterebbero le esportazioni e si otterrebbero maggiori profitti. Ciò dovrebbe comportare l'aumento di investimenti nelle aziende e risorse sul mercato locale, facendo aumentare la domanda interna e, quindi, attivare un circolo benefico che porterebbe ad aumentare l'occupazione.

La questione è che questo tipo di orientamento va a calarsi, a contestualizzarsi in una Italia che ha già attuato, e continua ad effettuare, politiche di deflazione salariale, senza avere effetti positivi sulle esportazioni che non sono aumentate di quanto ci si aspettava, anche perché in parallelo alla riduzione dei salari, si è ridotta la produttività del lavoro che è la variabile vera e fondamentale nel processo di trasformazione economica che si vorrebbe realizzare. Inoltre, rispetto all'aumento dei margini di profitto derivanti dall'aumento di esportazioni, non è aumentata la domanda di occupazione interna.

L'abolizione definitiva dell'art.18 (parte dell'art.18 è stato già eliminato dalla riforma Monti-Fornero) non sarebbe proprio la riforma di cui avremmo bisogno in questo momento, ma rappresenta l'AGNELLO SACRIFICALE con cui presentarsi davanti alla troica europea per poter affermare che l'Italia continua a muovere passi effettivi verso la DEREGOLAMENTAZIONE del mercato del lavoro (e qui mi verrebbe di ricordare quel termine DEREGULATION di Ronald Reagan e Margaret Thatcher che ha dato inizio a quelle trasformazioni che ci hanno portato a vivere questa immane crisi economico-finanziaria).

Tutto sulle teste e sulle vite dei lavoratori: forti con i deboli e deboli con forti.

Fulvio Rubino

(CGIL: coordinatore nazionale dello sviluppo dei sistemi informatici di calcolo previdenziale)

 

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