Giorgio Napolitano e la politica (di Michele Graduata)

L’incontro tra il sedicenne Giorio Napolitano e la politica avvenne, nel 1942, al liceo “Tito Livio” di Padova dove la famiglia, di origine napoletana, si era trasferita “sfollata” per sottrarsi ai bombardamenti inglesi che avevano cominciato a cadere sulla città natale. Qui, insieme ad un gruppo di amici, coltivò l’amore per il teatro e la letteratura e cominciò a respirare quell’aria di libertà che veniva irradiata da maestri come Concetto Marchesi.
Rientrato a Napoli, nel 1942, dopo una iniziale indecisione se iscriversi alla facoltà di Lettere e filosofia, scelse Giurisprudenza condizionato anche dal fatto che il padre svolgeva, con prestigio, l’attività forense. Insieme a tanti giovani che, poi, occuperanno posizioni prestigiose nel campo, culturale, artistico, giornalistico e politico iniziò la “corsa alla politica” nella stagione immediatamente precedente alla caduta del fascismo. Nel corso di intense riunioni di groppo si discuteva e si leggeva di tutto.
In questo clima giunse il 25 aprile che spinse molti di quei giovani a cercare il Partito Comunista. Anche il giovane Napolitano, nel 1945, cominciò a svolgere attività politica tra gli studenti dell’università fino al punto di diventare, da indipendente, segretario del movimento giovanile comunista. Su “presentazione”, come allora si usava, di Mario Alicata, lo stesso anno, si iscrisse al partito dove incrociò Giorgio Amendola al quale rimase sempre legato da profonda amicizia.
Dopo aver superato le resistenze del padre che, in un primo momento, non avallò le scelte compiute, al V Congresso nazionale del Pci che si svolse a Roma dal 29 dicembre 1945 al 6 gennaio 1946, Napolitano fu colpito da alcune parole pronunciate da Togliatti nella relazione introduttiva: “Non vi è provincia, non vi è città, non vi è villaggio d’Italia dove non possa essere segnato con una croce il posto in cui un comunista ha dato la vita per la libertà del proprio paese”. Come ha scritto nei suoi libri, si trattava di argomenti che avrebbero segnato per anni la lotta politica nell’Italia postfascista.
Ormai era giunto il momento di fare “una scelta di vita”. Dopo le elezioni del 18 aprile decise di diventare funzionario del Pci dove, sotto la guida del compagno Cacciapuoti, apprese “una severa disciplina di lavoro, di puntualità, di rispetto degli impegni e delle scadenze, imparai molto da lui, anche sul lato umano, brusco e burbero com’era, e così diverso da me”.
Da allora, Napolitano ha assolto diversi incarichi nel partito e nelle istituzioni fino a ricoprire la carica di Presidente della Repubblica.
L’ho conosciuto in diverse iniziative di partito e come capo gruppo dei deputati comunisti, mentre ricoprivo la carica di capogruppo dei deputati pugliesi. Pur tra diversi e spesso contrastanti punti di vista, di lui mi hanno sempre colpito la serietà e l’autorevolezza con la quale svolgeva il suo mandato.
Durante gli anni del suo impegno civile e democratico, per Napolitano - come lui stesso anni dopo ha raccontato - la politica è stata sempre vissuta come: “durezza, necessità, amoralità, senza mai spogliarsi del tutto della sua componente ideale e spirituale, senza mai rinnegare completamente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura”.
Il testamento politico che ci lascia oggi che non è più tra noi è: “Non ho mai cessato di sentirmi legato alla politica” perché, come ricordava Plutarco: “L’importante è fare attività politica, non averla fatta”.
 

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