Famiglie di fatto tra libertà e tutela: il giudice sostituisce il legislatore (Maria Cariello)
La transizione dal “concubinato” alla “famiglia di fatto” testimonia l’evoluzione anche lessicale, nel trattamento del fenomeno e la copiosa produzione giurisprudenziale unitamente alle sparute previsioni legislative, attestano una rilevanza che è andata oltre la mera tolleranza.
In fondo l’art. 29 della nostra Costituzione non nega dignità a forme del rapporto di coppia diverse dal matrimonio, riconoscendo alla famiglia legittima una dignità superiore in ragione “dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività di diritti e doveri, che nascono soltanto dal matrimonio”(Corte cost, 26.5.89, n. 310, in Giust. civ., 1989, I, 1782).
Di contro, la famiglia di fatto può essere inclusa in quelle “formazioni sociali” menzionate dall’art 2 della Costituzione, ove il singolo svolge la sua personalità, lasciando al legislatore il compito di definirne lo statuto assicurando la salvaguardia dei “diritti inviolabili dell’uomo”. In funzione del principio di libertà che ispira la famiglia di fatto, i conviventi potranno regolamentare i loro rapporti adottando gli strumenti tipici degli atti di autonomia privata; diversamente una disciplina organica della materia, violerebbe proprio quella scelta di libertà dei conviventi, nel decidere di eludere volontariamente le regole del sistema “famiglia legittima”.
Nel rispetto di tale principio, è stata l’opera adeguatrice della giurisprudenza a riempire i vuoti legislativi, regolando di fatto fattispecie di carattere patrimoniale o penale. L’assenza di una normativa organica non ha infatti impedito al legislatore ed al giudice di equiparare i diritti dei componenti della famiglia di fatto a quelli della famiglia legittima. Gli artt. 250 e ss. c.c. come innovati dalla legge 219/2012 nel riconoscimento di un unico status di figlio, hanno recepito gli approdi dell’interprete nella regolamentazione dei rapporti genitori-figli, residuando discriminazioni sul piano processuale.
E così la legge n. 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario, che consente ai detenuti di ottenere permessi per visitare i familiari o il convivente in pericolo di vita; l’art. 1 della legge n. 405 del 1975, istitutiva dei consultori familiari che ammette a fruire del servizio sia le coppie legate in matrimonio, sia le coppie di fatto; l’art. 17 n. 2 e 3 della L. n. 179 del 31 luglio 1992 che attribuisce al convivente more uxorio il diritto di subentrare all’assegnatario di case popolari defunto in assenza del coniuge e di figli minorenni, pacifico pure il diritto al risarcimento del danno per la morte del partner, nel caso di privazione di vantaggi economici a condizione che sia intercorsa una convivenza stabile.
Nel 1988 in seguito a un lungo dibattito giurisprudenziale la Corte Costituzionale, con sentenza del 7 aprile 1988, n. 404, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 della legge 27 luglio 1978, n. 392 sulla disciplina delle locazioni di immobili urbani, nella parte in cui non prevede tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio. Non senza dimenticare come a tutt’oggi, l’eterosessualità o l’omosessualità della coppia rappresentino ancora un discrimine anche se le aperture non mancano.
La Corte di Cassazione sulla scia della Corte Costituzionale (sentenza n. 138 del 2010) con sentenza del 15 marzo 2012, n. 4184, chiamata, a decidere se due cittadini italiani dello stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all’estero, siano o no, titolari del diritto alla trascrizione dell’atto nel registro dello stato civile, confermando la decisione del giudice di merito che ne ha negato la trascrivibilità, ha escluso che il matrimonio fra persone dello stesso sesso non sia configurabile come matrimonio, in quanto ai sensi dell’art. 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, la diversità di sesso non costituisce il presupposto “naturalistico” di “esistenza” del matrimonio. La Corte ha concluso che «il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, celebrato all’estero, non è inesistente per l’ordinamento italiano, ma inidoneo a produrre effetti giuridici».
Come a dire: riconoscimento si, ma tutela ancora no, in attesa di un intervento del legislatore. Tanti i vuoti da colmare: in ambito lavorativo, successorio, ai trattamenti sanitari per il convivente ricoverato, alla pensione di reversibilità riconosciuta all’ex-coniuge se quest’ultimo non si è risposato e non al convivente. Vani i richiami dell’Unione Europea (Raccomandazione del 16 marzo 2000 e Risoluzione del 4 settembre 2003) con i quali si è invitati gli Stati Membri a garantire alle coppie non sposate e alle coppie dello stesso sesso parità di diritti rispetto alle famiglie tradizionali.
Ma il legislatore italiano more solito, da sempre disinteressato ai problemi delle minoranze “povere”, si è limitato a timidi tentativi, dimenticando che la famiglia non è un istituto privatistico, ma è lo snodo tra la persona e la società, tra la persona e lo Stato. Fissata semmai la linea di demarcazione tra la famiglia ed altre forme di convivenza, l’intervento di un legislatore accorto, dev’essere pragmatico valutando le ipotesi in cui far prevalere le ragioni della differenza e quelle in cui dare preminenza alle ragioni dell’analogia.
Al vertice delle preoccupazioni dovrebbe esserci il proposito di sostenere positivamente le famiglie (tutte) e non di penalizzare le unioni di fatto.