La (mezza) retromarcia del borioso Boris – seconda puntata (di Homo Videns)

Mentre Boris il rosso tenta di fare una mezza retromarcia, assistiamo al voltafaccia bellicoso del Matteo leghista,

testa d’ariete del populismo italico. Però, mai come in questi giorni è utile guardare al panorama internazionale, sollevando lo sguardo al di sopra del nostro cortile, sia esso personale, comunale, regionale oppure nazionale. Senza perdere di vista i nostri drammatici casi, anche personali, è chiaro ormai – quasi a tutti noi – che tutto il mondo è di fronte ad una minaccia terribile, di cui non si possono vedere le conseguenze. È come se ci trovassimo di fronte ad un attacco di esseri alieni, di cui poco o nulla sappiamo. Ecco perché è corretto parlare di “stato di guerra”, come hanno fatto Macron e la Merkel; e infine, obtorto collo ma con pragmatico senso anglo-sassone, anche l’arrogante Trump e poi pure il borioso Boris. E così, dopo averci trattati con ironia, ora stanno seguendo lo stesso iter applicato in Italia.

Che si trattasse di uno stato di guerra lo avevamo visto (grazie alle tv, ai telefonini e a facebook) già in Cina, che aveva messo in pratica la difesa militaristica dall’alieno virus senza dichiarare apertamente lo “stato di guerra”. Poi l’Italia ha cercato di fare la stessa cosa, senza usare i toni militaristici della Cina, ma mettendo in pratica – in maniera graduale – gli stessi principii, benché adeguati ad una società individualistica e agonistica come l’Italia. Forse in maniera troppo graduale, ma questo è addebitabile alla necessità di concordare e concertare le misure tra i vari livelli in cui è articolata la struttura democratica italiana, come tutte le democrazie occidentali. Un paese centralizzato come la Cina non ha avuto difficoltà nel mettere in atto velocemente lo stato di guerra, e imporre le conseguenze operative a tutti i suoi cittadini, compreso il carcere per i disobbedienti.

Sarebbero state possibili anche in Italia misure estreme come in Cina?  Ridicolo il solo pensarlo, se ancora continuiamo a vedere riunioni di anziani nei circoli ricreativi, meeting giovanili a base di birra, frotte di culturisti e/o naturalisti per i parchi. In Italia, come in Francia, in Gran Bretagna, come in Germania, Spagna, e negli USA, i valori preminenti sono quelli dell’ego: è l’individuo che predomina sulla comunità. Io vengo prima di tutto! Quell’egoismo latente, che è scoppiato nel mondo alla fine degli anni ‘80 del secolo scorso, e poi è dilagato negli ultimi 20 anni, oggi mostra tutta la sua distruttiva potenza. Quell’egoismo che ha visto mettere in discussione i vaccini, i professori, i medici, gli scienziati, perfino la religione. Non solo i preti, le gerarchie ecclesiatiche, ma financo i Papi, i catechismi, i precetti, la comunità ecclesiale, i comandamenti. Ognuno si è fatto prete di sé stesso, ognuno si auto-assolve.

Ma le misure estreme ormai sono necessarie, e forse saranno attuate. Le notizie che arrivano da Bergamo ci dicono che i morti non si contano più; che è necessario fermare subito tutte le attività produttive; ma le stesse notizie ci giungono anche dall’Emilia Romagna. Perché si tarda a chiudere le attività produttive, almeno in quelle zone, che sono ora il principale veicolo di infezione?

Perché, provo a darmi una risposta plausibile, siamo lenti a vincere quell’egoismo che, nello stesso tempo, ha determinato la decadenza della cultura, lo svilimento della crescita culturale in semplice spettacolo, l’impiego delle risorse pubbliche in favore di tutto ciò che potesse fare spettacolo. Quell’egoismo che ha favorito l’inquinamento dello sport con la mafia, la subordinazione della cultura sportiva agli affari economici: non è forse stato lampante per settimane che le preoccupazioni principali erano di non far slittare le partite, di non farle a porte chiuse, di non perdere il campionato? Alla faccia delle belle parole, come “la salute prima di tutto”! Quell’egoismo che, nello stesso tempo, ha visto la banalizzazione delle cose complesse; e soprattutto, in nome di tutto questo ha giustificato l’appello al popolo, l’arroganza di rappresentare il popolo.

Un movimento politico ha fatto la sua fortuna (abbastanza effimera) con lo slogan “uno vale uno”; un principio basilare dell’eguaglianza politica nella democrazia, ma un principio abominevole nella definizione della verità, dove conta soltanto la competenza e la razionalità. Però, il principio “uno vale uno” non l’ha inventato Beppe Grillo; lui ne ha soltanto preso atto. L’individuo si sente, oggi, sovrano assoluto, sciolto da ogni vincolo, uno Stato in sé, un Dio in sé. Il termine umiltà è sparito dal vocabolario presente. Ugualmente è accaduto per il termine comunità, richiamato oggi da alcuni politici (non sappiamo con quanta consapevolezza). Grillo ha utilizzato quel principio meglio di come avesse fatto per 20 anni prima di lui Berlusconi, con la differenza che l’utilizzo fattone da Berlusconi era strumentale, finalizzato ai suoi  interessi di casta. Grillo ne ha utilizzato le sue estreme conseguenze dottrinali, quelle dell’anarchia di massa (un terreno storicamente fertile nella società italiana).

Ora, di fronte al nemico alieno, la grandissima parte degli italiani prega per avere sùbito il vaccino, fà il tifo per gli scienziati che si occupano di virus, attende una parola chiarificatrice da coloro che hanno studiato queste discipline e che possono salvarci. Ma… c’è un’altra parte pronta a riprendersi il suo superiore stato di individuo sovrano, di Dio/Re. Quella parte di società è ancora coccolata da alcune forze politiche che, furbescamente, hanno scommesso la loro esistenza su quella fetta di popolazione che non accetta di essere istruita ed educata, che semplicemente non ha nel proprio vocabolario la parola umiltà.

Macron, Merkel (come già Giuseppe Conte), finalmente, si affaticano a spiegare ai loro concittadini che i loro paesi non sono fondati sulla coercizione; perché lo fanno? Perché mettono le mani avanti sul pericolo che venga messa in discussione l’essenza stessa del capitalismo: la prevalenza della libera concorrenza, della libertà economica, della libertà dei capitali di fare i propri interessi, alla fin fine la prevalenza del singolo sulla comunità. In una situazione nella quale lo Stato (e gli Stati nel loro insieme) dovrebbe prendere in mano le redini dell’economia, della politica, del diritto, ci si affanna a difendere la preminenza del libero capitalista.

Il tema tornato prepotentemente alla ribalta, quindi, è quello del rapporto tra individuo e società, tema che fu affrontato nell’Ottocento – alla nascita della società di massa – da filosofi, economisti, poeti e romanzieri, ma anche dai primi sociologi. Uno di questi sociologi era l’inglese Herbert Spencer.

Semplificando una materia molto complessa, possiamo dire che questa discussione ebbe vari illustri esponenti, che si schierarono sia a favore dello Stato che a favore dell’individuo; sostanzialmente, essi si impegnarono a cercare di scoprire se fosse più utile uno Stato forte oppure una libera iniziativa svincolata da qualsiasi obbligo statale. Adam Smith postulò l’esistenza di una “mano invisibile”, capace di regolare la domanda e l’offerta e che era alla base della concordia degli interessi contrastanti dei singoli operatori economici. Alcuni, come il positivista Comte, parlarono di “fisica sociale”.

Spencer fu un precursore di Darwin dal punto di vista filosofico; egli enunciò, prima di ogni altro pensatore, il principio della “sopravvivenza del più adatto”. E sostenne che “la moderna società industriale è più benefica verso i suoi membri delle antiche, autoritarie e meno evolute società militari, e che i suoi complessi meccanismi di spontanea collaborazione fra i singoli non possono essere ostacolati”.

Una delle opere più significative di Spencer è «L'individuo contro lo Stato», del 1884 (The man versus the State). Già dal titolo si capisce tutto. Ma anche se il suo pensiero è molto complesso ed articolato, fondato sul massimo liberalismo, in buona sostanza il succo delle sue tesi è il diritto dell’individuo di ignorare lo Stato, di non rispondere alla chiamata alle armi, di rifiutarsi di pagare le tasse. Qualche socialista ne trasse spunto; e ovviamente, anche qualche anarchico. Il miscuglio era allettante, ma l’impianto era spregiudicatamente conservatore. Tant’è che le sue tesi sono state riprese apertamente dalla destra neo-populista-sovranista-iperliberista.

Quelle tesi implicavano una radicale difesa del cosiddetto laissez faire (liberismo economico), forma politica tipica del periodo storico ottocentesco, e il rifiuto degli “interventi pubblici diretti a salvare dall'estinzione gli individui incapaci dell'autodisciplina necessaria a sopravvivere” (Spencer). Per favorire, appunto, la “sopravvivenza del più adatto”. Era un tentativo rivoluzionario (allora) di dare una base naturalistica alla nuova e prorompente società liberale. E di liberare la società vittoriana dai vincoli di natura religiosa. Alla tesi della “mano invisibile” di Adam Smith corrispondeva, così, la tesi Spenceriana dell’evoluzione delle forme sociali – famiglia, agglomerati, istituzioni – mediante “adattamento selettivo”. Per alcuni successivi pensatori, questo meccanismo adattativo avrebbe condotto all’abolizione naturale delle guerre. Mentre per altri, soltanto l’eugenetica (la distruzione dei deboli) avrebbe potuto eliminare gli elementi negativi e pericolosi per la sopravvivenza umana.

Da queste dottrine presero nuovo vigore le tesi dell’inferiorità dei “negri” e dei popoli “primitivi”, messe in pratica dall’imperialismo euro-americano e, poi, condotte alle estreme conseguenze con l’apartheid e la shoah.

Quella parte di società di cui dicevamo prima, che se ne frega delle regole sanitarie anti-virus, che continua a fare i propri porci comodi, furbescamente coccolata da alcune forze politiche che hanno scommesso la loro esistenza su di loro; quella fetta che non accetta di essere educata, che semplicemente non ha nel proprio vocabolario la parola umiltà, rappresenta (forse inconsapevolmente) l’incarnazione del principio della “sopravvivenza del più forte”.

Alla luce di queste considerazioni, forse può essere più comprensibile l’offensiva propagandistica e mediatica scatenata oggi da Salvini e company: –non una parola contro il menefreghismo degli individui; –presentazione di sé stessi come lo Stato-mamma; –addebito di tutti i guai allo Stato-istituzione, oggi personificato dal Governo, Giuseppe Conte in primis. Cortine fumogene certo, ma molto contagiose sul piano sociale. Un’offensiva tesa a rassicurare il proprio bacino elettorale, e a creare scompiglio in quello avverso.

Allo stesso tempo, non può non colpire che i partiti di governo stanno affrontando il momento attuale alla spicciolata, senza una visione d’insieme, mentre è forte la richiesta ragionevole di uno Stato forte, che viene dal basso, di comunità, di sicurezza sanitaria; colpisce la risposta del tutto tecnicistica che la classe dirigente sta dando, senza comprendere il cambio di paradigma in atto. Temo che, se non si danno una mossa, anche a livello regionale, saranno di nuovo costretti ad inseguire i populisti sulle loro strategie fumogene e fuorvianti. In questa crisi, la società vuole essere governata, guidata… e il peggio deve ancora venire… (2-continua)

Homo Videns

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