Le riflessioni sul futuro del centrosinistra dell'uomo che scelse Scoditti (di Giuseppe Florio).

Se il PD avesse avuto il profilo asciutto ed affilato di Giovanni Galeone, qualche cosa di diverso l'avrebbe negli ultimi tempi quagliata. «Semplice militante», come suole definirsi, allo stringere è una delle menti che più autorevolmente esercita la ragion politica, ed il suo pulpito viene ascoltato. Come quando, quasi 5 anni addietro, per tirare il centrosinistra fuori dalle secche del muro contro muro con SEL, coniò la candidatura - poi risultata vincente – di Franco Scoditti.

Eterodosso quanto ad intuizioni e capacità di analisi, togliattianamente ortodosso per il senso dell'appartenenza al partito, oggi Galeone è ancora l'agente di una riflessione supplementare, l'avanguardia di quei settori del partito a cui proprio non scende giù l'ipotesi di scegliere tout court un candidato interno da contrapporre a Molfetta soltanto per il maggior peso elettorale.

 

Sul capogruppo sellino ha da dire: «La scelta di autocandidarsi mi è sembrata irrituale nel metodo e poco convincente sul piani delle motivazioni. In questa fase storica se conveniamo che bisogna chiudere una stagione politica è necessario che scendano in campo nuovi protagonisti. Anche Pompeo dovrebbe capire che bisogna andare oltre se stessi. La logica che adesso sarebbe il turno suo dopo le rinunce passate mi sembra in questo momento inadeguata».

Sulla giunta Scoditti: «Dopo la breve infelice stagione del centrodestra, per evitare la logica dei veti incrociati e garantire l’unità del centrosinistra la sua candidatura emerse come un punto di equilibrio. Questo progetto doveva radicarsi nella città con i suoi protagonisti. Non è andata così. Dopo un buon inizio è venuta meno la saldatura politico-amministrativa e questo in un periodo di oggettive difficoltà per gli Enti Locali ha reso tutto più difficile. Detto questo giudizi liquidatori senza alcuna distinzione e approfondimento mi sembrano poco seri ed assai interessati».

Per l'immediato futuro? «Occorre presentare un progetto politico nuovo e rinnovato, in cui la discontinuità deve essere percepibile, a partire dalla guida amministrativa. Un ricambio generazionale, anche e soprattutto di mentalità, l’età da sola non basta. Pur con le dovute distinzioni, vedo giovani o semigiovani tanto ambiziosi quanto evanescenti, rottamatori poco credibili ed autoreferenziali, dirigenti aspiranti o divenuti tali sotto e grazie a un padrino politico, gente che chiede senza stile agli altri di farsi da parte perché adesso tocca a loro.

A parte queste ambizioni smodate, spesso è difficile apprezzare altro. Non è emersa finora, ma spero che le elezioni diano un segnale, una nuova leva dirigente autorevole e credibile. Questo è stato un po’ il limite anche della generazione politica uscente, aver insistito più sulle fedeltà e sulla propria funzione che sullo stimolo verso una nuova adeguata classe dirigente».

Come dovrebbe procedere il PD? «L’attuale segretario si sta muovendo con accortezza in un partito articolato e complesso, che mantiene sempre un livello ragguardevole di dibattito. Vedo due possibilità: un confronto non privo di rischi per individuare tramite le primarie una candidatura all’interno del ceto politico e da contrapporre eventualmente a Molfetta, oppure lo sforzo di andare oltre il PD per una candidatura di prestigio professionale che superi la dicotomia società civile/società politica. Io sono per quest’ultima soluzione».
E rispetto alle voci di accordi trasversali? «Non c'è niente di meglio di un sano confronto programmatico tra schieramenti omogenei sul futuro della città. In politica si possono anche cambiare idee e posizioni, anziché partiti e schieramenti, ma questo deve essere il frutto di un processo di maturazione che richiede i suoi tempi. Diversamente si tratta di trasformismo e raramente ha dato buoni risultati».

Giuseppe Florio

 

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