Il Carnevale: una rilettura del Cattabiani a cura di Nuccio Pasimeni.

Proponiamo, traendo spunto dagli studi e dalle riflessioni fatte dal compianto A.Cattabiani, attento cultore delle Feste, dei Miti, delle Leggende e dei Riti dell’anno, alcune riflessioni sul Carnevale.

“”Anche il Carnevale sembra ormai ricalcare il destino di molte altre Feste del Consumo indotto.

Un tempo il Carnevale fu come una meteorite che sconvolse la struttura dell’antico Febuarius, e meteorite lo è stato anche per il calendario liturgico cristiano col quale s’armonizza soltanto superficialmente, per non dire difficilmente, come testimoniano i tentativi di esorcizzarlo persino da un punto di vista etimologico. Si è sostenuto infatti che il suo nome derivi da Carni levamen, ‘sollievo alla carne’ e dunque ‘libertà temporanea concessa agli istinti elementari’; oppure da Carnes levare, ‘togliere le carni’; o ancora da Carni vale! ‘Carne addio’ in riferimento alle orge gastronomiche che esaurivano le ultime scorte di carni prima della primavera. Dunque Carnevale sarebbe sinonimo di periodo orgiastico, di sregolatezza.

Certo, in ogni Carnevale si riscontrano eccessi alimentari e sessuali, e perfino violenze che sembrano assumere la pura funzione di valvola di sfogo per l’istintività repressa nel resto dei mesi: il semel in anno licet insanire, parentesi nello scorrere ordinato dell’anno. Anche uno studioso delle religioni come Renè Guènon accetta questa interpretazione attribuendogli la funzione di valvola di sfogo. ‘Si tratta insomma’ scrive ‘di canalizzare in qualche modo tali tendenze e di renderle il più possibile inoffensive dando loro l’occasione di manifestarsi, ma soltanto per periodi brevissimi e in circostanze ben determinate, e assegnando così a questa manifestazione stretti limiti che non le è permesso oltrepassare. Se infatti queste tendenze non potessero ricevere quel minimo di soddisfazione richiesto dall’attuale stato dell’ umanità, rischierebbero, per così dire, di esplodere e di estendere i loro effetti all’intera esistenza sia dell’individuo sia della collettività, provocando un disordine molto più grave di quello che si produce soltanto per qualche giorno riservato particolarmente a questo scopo’.

Ma sono interpretazioni riduttive e fuorvianti: riduttiva quella che considera il Carnevale come valvola di sfogo degli istinti repressi e controllati per il resto dell’anno perché, come ha osservato Glaugo Sanga, ‘i comportamenti carnevaleschi non sono liberi ma costretti: si deve ridere, si devono scatenare gli appetiti non solo e non tanto in forma rituale, quanto in forma eccessiva. E l’obbligo dell’eccesso si trasforma in quel sottile senso di inquietudine e di angoscia che pervade i carnevali tradizionali’.

Fuorviante è quella guènoniana perché sembra paradossalmente condizionata – lo scrittore francese non era cattolico – dalla diffidenza della Chiesa verso il Carnevale.

D’altronde lo sono anche altre interpretazioni, a cominciare da quella di Paolo Toschi che vi vede riduttivamente un rito di propiziazione agricola. Né convince la tesi di Michael Bachtin secondo il quale il Carnevale sarebbe una valvola di sfogo politico e di controllo sociale perché permette che gli umori egalitari e anti-istituzionali riaffiorino nei riti dell’inversione sociale dove i servi diventano padroni. La ribellione può essere, è vero, innescata dai riti dell’inversione sociale, come è avvenuto infatti in occasione di alcuni Carnevali (classico è, a questo proposito, quello di Romans, narrato da Emmamuel Le Roy Ladurie); ma non ne è un tratto essenziale.

Prima di ricostruire il volto del Carnevale occorre precisare che, così come ci è giunto alle soglie del Novecento, è una confezione edulcorata dell’autentico. D’altronde, anche così degradato, è oggi moribondo nonostante gli sforzi di richiamarlo in vita artificialmente, come tutte le feste che sono diventate semplici occasioni di comportamenti ‘festosi’ perdendo la loro peculiarità. In latino il dies festus, il giorno di festa, era dedicato agli dei, alle cerimonie religiose e alle usanze gioiose o meno che vi erano connesse. Testimoniava una cesura del tempo lineare, un ritorno del tempo mitico: memoriale che ri-attualizzava un’epifania sacra. Analogamente, di là dalle differenze religiose, la festa veniva vissuta nella cristianità, e ancora oggi è così intesa nelle comunità cristiane, diventate isole nella società secolarizzata dove i giorni scorrono disperatamente eguali nell’alternanza monotona di tempo lavorativo e di vacanze.



Che cosa significa dunque il Carnevale tradizionale, e che cosa simboleggia? Proviamo a ricostruirne i tratti. Un primo nucleo è costituito dai Saturnali che la Chiesa, per non turbare l’atmosfera natalizia, cercò di espellere dalla loro collocazione tradizionale. Ma non vi riuscì del tutto perché le ‘libertà di dicembre’ si annidarono a lungo nel Medioevo fra i giorni successivi al Natale con le usanze carnescialesche dei Santi Innocenti che si svolgevano persino all’interno delle chiese con l’episcopello e le feste dell’ Asino. Fino alle soglie dell’età moderna in alcune regioni il Carnevale cominciava addirittura a Santo Stefano, come testimonia un proverbio bergamasco e bresciano: ‘Dopo Natale è subito Carnevale’.

D’altronde, oggi ancora un frammento dei Saturnali sopravvive nella notte orgiastica di San Silvestro. In altre regioni lo si iniziava dopo l’Epifania, e in altre ancora dopo la Candelora del 2 febbraio. Ma la data che si è imposta a poco a poco è quella di Sant’Antonio, il 17 di gennaio.

La conclusione invece è determinata dall’inizio della Quaresima la cui data varia secondo la Pasqua: per il calendario liturgico romano termina con il martedì grasso compreso fra il 3 febbraio – 4 per gli anni bisestili – e il 9 di marzo; mentre per l’ambrosiano, dove la Quaresima comincia con la prima domenica dopo il martedì grasso, a concludere il Carnevale è il sabato compreso fra il 7 febbraio – 8 per gli anni bisestili – e il 13 di marzo. Mediamente il Carnevale coincide con il periodo che precede la primavera. Ebbene, nella Roma arcaica l’anno cominciava con la lunazione di marzo, mentre nel Medioevo poteva cadere secondo gli stili il 1° marzo o il 25 marzo, oltre che a Pasqua, al 25 dicembre o il 1° gennaio.

Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo si svolgevano nella Roma antica alcune cerimonie dalle connotazioni carnascialesche. La prima cadeva il 27 febbraio, si chiamava Equiria e si ripeteva il 14 marzo: ‘I veloci cavalli spinge Marte congiunti ai loro cocchi’, riferisce Ovidio nei Fasti. Erano infatti corse di cavalli che si svolgevano al circo di Alessandro oppure, se il Campo Marzio era inondato dal Tevere, sul colle del Celio in un luogo detto Campus Martialis. Quelle corse, si diceva, dovevano propiziare Marte cui era dedicato anticamente il primo mese dell’anno, Martius, perché il dio era il padre di Romolo e Remo, e dunque padre e protettore di Roma. Secondo Dumèzil, le corse di cavalli in onore di Marte aprivano la stagione primaverile e chiudevano l’autunnale con il sacrificio del cavallo di ottobre perché il dio della guerra garantisse annualmente la protezione dell’ager Romanus contro le razzie nemiche, dunque l’alimentazione di Roma. Gli spettatori che seguivano le gare vedevano nell’arena il simbolo della terra; nelle dodici porte delle rimesse le costellazioni dello zodiaco; nei sette giri di pista previsti per ogni corsa delle bighe l’orbita dei sette pianeti.

Le corse dei cavalli-pianeti continuarono anche nella Roma cristiana fino al principio dell’Ottocento, come documentavano i vari scrittori, fra cui Goethe nel suo Viaggio in Italia: Erano tuttavia scomparsi i cocchi: e la corsa dei bàrberi – così si chiamava – era diventata il momento culminante del Carnevale.

Ma ora lasciamo Roma e spostiamoci in Grecia dove fiorirono i culti dionisiaci in onore del dio morto e resuscitato. Tra febbraio e marzo, nel mese di anthesteriòn, che segnava il passaggio dall’inverno alla primavera, si celebravano ad Atene le Antesterie, una festa di tre giorni che aveva come protagonista Dioniso e i cui caratteri trascoloravano dalla tristezza alla gioia.

Nel primo giorno, phytòigia, si aprivano i vasi di argilla (phytòi ), nei quali veniva conservato il vino novello, e si portavano al santuario di Dioniso della Palude dove si gustava il divino succo d’uva fermentato.

Nel secondo giorno, choès, ovvero ‘brocche’, si formava un corteo che raffigurava l’arrivo del dio: poiché si riteneva che Dioniso venisse dal mare, il corteo comprendeva una barca trasportata su quattro ruote di carro, dove troneggiava il dio con un grappolo d’uva in mano e due satiri nudi che suonavano il flauto. La processione comprendeva personaggi mascherati e un toro sacrificale preceduto da un suonatore di flauto e da portatori di ghirlande.

I tre giorni delle Antesterie, soprattutto il secondo, erano segnati dal ritorno delle anime dei morti, poiché dalla morte rinasce il germe di vita nuova. Anche oggi la Vecchia di mezza Quaresima, uccisa sulla pubblica piazza come anno vecchio, lascia cadere cibi e dolciumi ovvero i germi dell’anno nuovo. Certi archetipi rimangono invariati anche a distanza di secoli.

A tale proposito notiamo che quelle feste erano contrassegnate dal passaggio del carro dionisiaco. Ebbene proprio i carri contraddistinguono ancora oggi le sfilate carnascialesche, simili simbolicamente ai carri che circhi della Roma imperiale simboleggiavano il passaggio dei pianeti nel cielo verso la primavera.

Quando ci si imbatte nelle allegorie astrali, si fa riferimento alla arcaica cultura babilonese. In Babilonia le feste erano soprattutto i giorni critici della rivoluzione lunare (novilunio e plenilunio) e del corso del sole comparato con l’orbita lunare (solstizi ed equinozi). La più importante era quella che segnava il rinnovamento dell’anno, all’equinozio primaverile, rituale descritto miticamente dalla lotta del dio Salvatore (Marduk), con il Drago (Tiamat), che si concludeva con la vittoria del primo. Sicchè l’anno vecchio – nemico ed oppressore – veniva vinto e scacciato dal dio Salvatore.

Anche qui questa ri-creazione veniva rappresentata con la simbolica nave provvista di ruote su cui il dio vincitore percorreva la grande via della festa: ‘E’ il Car Naval’ afferma Winckler ‘che ancora ai nostri giorni dà nome alla festa e che conclude un anno vecchio e ne comincia uno nuovo’. La sfrenatezza di questi cortei era un passaggio interiore delle acque. Si toglieva l’ancora, si salpava metaforicamente per affrontare l’alto mare.

Ogni passaggio delle acque è inquietante, ambiguo, angosciante. Non è facile il viaggio: nella traversata la paura del passaggio periglioso rende folli coloro che s’imbarcano.

Per questo motivo il car naval venne chiamato nel medioevo anche stultifera navis, la nave dei folli. Ma la follia non è insensata, ha una direzione: l’altra sponda ove deve approdare il Carro navale.

Durante la navigazione il corpo del vecchio anno si frantuma nell’indistinto: ognuno perde la propria identità, i ruoli sono invertiti, così come i sessi, mentre la danza collettiva è orgia dionisiaca, è l’obbedire al Gioco divino che regge il cosmo; e infatti i giochi sono tipici di questo periodo di passaggio.

Si è coinvolti in una bufera tragicomica cui non si può non partecipare, dove i comportamenti carnascialeschi diventano obbligatori: si deve ‘impazzire’. Le maschere a loro volta, già tipiche delle ‘libertà di dicembre’ nell’antica Roma, rappresentano l’epifania dei morti che riaffiorano e si confondono con i vivi nel generale rimescolamento: terrificanti e vitali, aggrediscono, spaventano, toccano, prendono al laccio, si comportano da folli e buffoni mentre rumori assordanti alludono alla deflagrazione del vecchio cosmo-anno. Quelle maschere sono in realtà l’epifania della Morte che tutto rinnova, della tredicesima carta dei Tarocchi: al fondo di ogni autentico Carnevale, vi è infatti questa presenza, pur non avvertita spesso coscientemente, che lo rende tragico nella sua allegra sfrenatezza””.

Rilettura effettuata a cura di Antonio Pasimeni del paragrafo “Il Carnevale” inserito nel Capitolo Il Carro degli dei nel libro: CALENDARIO – Le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno, scritto da Alfredo CATTABIANI, Rusconi editori, 1989.





 

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