L’ Aparu (di Nuccio Pasimeni)
Con il termine “Apàru”, oggi a Mesagne si intende un podere delimitato da un muro di cinta al cui interno sono piantati esclusivamente agrumi.
Però con tale termine non si indica solo ciò.
G.Rohlfs nel suo ‘VOCABOLARIO dei dialetti salentini ‘ (Congedo ed., Galatina, Vol.I,1976,) a pag.49 con tale termine indica un: “Alveare, Apiàro” che si compone di cassette di tufo, come si può vedere dalla allegata figura.
Quindi se ne deduce che negli agrumeti (recintati per motivi di sicurezza) si produceva anche il Miele, in quanto le Api erano attratte dall’intenso profumo delle Zagare che fiorivano in Primavera.
Doveva essere attività antica e florida, quella di Mesagne, se ha indotto il prof. Anacleto Lupo a scrivere sulla Gazzetta del Mezzogiorno di Lunedì 26 novembre 1990 il seguente articolo che riproduciamo integralmente:
MESAGNE -
“Tra viti, uliveti e ridenti campagne, come una gran regina sta Mesagne”.
Questi i due primi versi di presentazione. Poi subito altri due:
“Si sente un ronzio di api senza fine: il miele di Mesagne è sopraffine”
Ed ecco gli ultimi:
“Qui c’è anche l’Arcangelo Michele E c’è il pozzo di Giacobbe e di Rachele”.
Un ingresso a Mesagne a suon di versi. E… a suon di fisarmonica. E’ un anziano che suona. In un gruppetto di ragazzi.
“Mesagne è un paese musicale. Anche se dici ‘a’ , l’aria vibra e fa come uno squillo. Il nostro Concerto bandistico ha avuto un passato glorioso. Vi suonavano tre miei zii”, mi dice l’uomo. Ha un paio d’occhi d’un azzurro particolare che dà al turchino. “Il colore del cielo di Mesagne”, mi sussurra quando faccio l’elogio dei suoi occhi. Poi continua tenendo di traverso sul petto la grande fisarmonica. Che manda bagliori di madreperla: “Quei versi li ho composti io da giovane e li ho anche musicati. A orecchio, s’intende. Io non sono un musicista di opere. Io sono un cantastorie di fiere. Ho girato per mezzo secolo tutta la Puglia.
Sono arrivato anche in Calabria e lì ho conosciuto Otello Profazio. Inventammo insieme una canzonetta che cominciava:
“a Mesagne
Nessuno si lagne,
e chi si lagne
non venga a Mesagne”.
L’uomo accenna sulla fisarmonica quel motivetto, muovendo rapido le dita sulla tastiera che sembra sprizzare corolle di scintille d’argento. “Questa fisarmonica – dice – me la comprò a Castelfidardo trent’anni fa mio padre quando tornò dall’ America. Ora mio padre è morto ed io, vecchio scapolone, continuo a suonare la domenica per questi ragazzi, figli di due mie sorelle. Suono a cuor contento perché: ‘a Mesagne, Nessuno si lagne…’ ripete, e riprende a suonare mentre i ragazzi saltellano e battono le mani.
“Dunque, tutti ottimisti e allegri a Mesagne?”, chiedo.
“Sicuro”, mi risponde il fisarmonicista e subito aggiunge: “Almeno, così erano una volta. Del resto, uno dei primi cantastorie d’Italia è stato un mesagnese. Si chiamava Jacopo, suonava e cantava alla corte di Federico II. Tutte canzonette frizzanti e spassose quelle di Jacopo, composte in lingua pugliese antica. Le chiamavano le ‘jacopate’ e spesso l’imperatore svevo nel sentirle rideva di cuore”.
Certo, in questo racconto c’è tanta fantasia popolare. Però, che al tempo di Federico II esistesse un poeta di nome Jacopo, autore di canzoni in lingua pugliese antica, questo risulta dalle notizie che ne dà un musicologo e storico barese, Giovanni BernardinoTofari.
Mesagne musicale e canzoniera. Mesagne allegra, gioviale.
“Mesagne del benessere con le sue campagne abbondanti di frutti. Davanti a certe viti cariche di grappoli dai chicchi turgidi e rosseggianti; davanti a un albero d’ulivo che sembra una cascata di corone d’argento, come non sentirsi vivificato anche fisicamente?”, se lo chiede e me lo chiede un signore.
“Mi chiami pure l’ ottimista”, mi dice e aggiunge: “La Mesagne del benessere d’un tempo è un po’ lontana, d’accordo, l’ammetto; oggi come oggi, quella Mesagne va e viene. C’è e non c’è. Però c’è. E poi la nostra Mesagne del passato ha sempre un valore. E per quanto si voglia essere pessimista non si può negare che Mesagne era, è e sarà sempre la città della cosa più dolce del mondo, la Città del miele”.
Il signore che ha un viso roseo e una folta capigliatura bionda, socchiude un occhio e continua: “Guardatemi bene e ditemi se non sono io stesso figlio di un’ape regina. D’altra parte l’altotonante Giove, padre degli dei, era biondo; quando nacque fu nutrito col miele”.
Miele di Mesagne, intreccio di mitologia, di storia e fantasia.
“Il nostro miele – mi dicono alcune donne – è tutto speciale nel colore, nel sapore e nell’odore” e mi spiegano: “Il colore è un biondo con un tremolio di chiaroscuri; il sapore è quello di tanta frutta messa insieme: ciliegie, fragole, albicocche, prugne, pesche; e l’odore è di viola-rosa-grigio-mammole”.
Le prime api che fecero questo miele – dicono ancora – vennero da una terra lontanissima. Volavano a sciami lungo la costa del mare dietro a un profumo irresistibile. Si fermarono in tanti giardini ma non trovarono il nettare che cercavano. Il profumo si faceva sempre più vicino e più forte. E vola, vola, vola, le Api, ad un tratto, vennero a trovarsi nel bel mezzo di una pianta alta con tante cupole di rami e fiori intrecciati. Una pianta profumatissima. Era il semprevivo di Mesagne. Quegli sciami erano arrivati nelle nostre campagne. Si misero a succhiare. Così nacque il primo miele di Mesagne. Da allora gli antichi cominciarono a cantare questa canzonetta:
“chi magne
lu mele di Mesagne
beve dolcezza
e beve giovinezza”.
Nel larghetto queste donne mesagnesi ora sciamano davvero come api. Ed una, anziana ma alta e dritta ancora, con una corona di capelli nerolucenti e una memoria di ferro ( la chiamano la “sempre-viva”), interviene: “Ascoltatemi bene –mi dice - . Mia madre mangiava ogni giorno pane e miele paesano ed è campata novantasette anni, sei mesi e tre giorni. Anch’io faccio la stessa cura e sono arrivata già a ottantacinque anni, sette mesi e nove giorni”.
Pane, miele e fantasia? Un film da girare a Mesagne.?
“Miele significa abbondanza. Ma non un’abbondanza qualsiasi”, sentenzia Egidio, studioso di Sacra Scrittura.
“Non sono un prete – mi dice - . Ma la Bibbia dovremmo leggerla e meditarla tutti”. Per lui il miele, come il latte, hanno un “significato biblico inconfutabile”. Nella Terra Promessa, e quindi nel Paradiso Terrestre, scorrevano fiumi di latte e di miele.
Questo motivo religioso-biblico si ritrova adombrato anche in S. Michele, che un tempo era denominato da qualcuno “l’Arcangelo del miele”. C’è chi tira in ballo anche il pozzo di S. Sebastiano presso il quale i mesagnesi avevano eretto una chiesa al “Principe della milizia celeste”. Quel pozzo veniva considerato come il pozzo di Giacobbe e di Rachele.
“Questa coppia di Dio – mi racconta una donnetta con un pesante medaglione di S. Michele al collo – subito dopo sposati, mangiarono il miele. E così è nata… la luna di miele”.
Qui siamo al trionfo del miele.
“Miele di Mesagne:
una dolcezza che ti tocca il cuore
e che ti fa passare ogni dolore…”.
Una strofetta a suon di fisarmonica. E’ il cantautore della domenica.
Sta provando l’ultima sua canzonetta che comincia:
“A Mesagne è sempre luna di miele…”.
Da tutto quanto sopra possiamo dedurre, d’accordo con Nicolò Carmineo che nel suo articolo: Un’ape in casa mia – apparso sul numero di febbraio 1996 nel supplemento PIU’ della Gazzetta del Mezzogiorno – dice:
“L’apicoltura ha tradizioni antiche. E specialmente nel Salento, un tempo tutte le masserie avevano il loro alveare. Il miele che parla del Sud. Forse non tutti sanno che di miele non ce n’è uno solo, e a volte la differenza di aspetto e di sapore tra l’uno e l’altro è notevole. Il Miele di agrumi, tra quelli più apprezzati, è una produzione tipica dell’ Italia meridionale, ha un aspetto cristallino a grana grossa, il colore molto chiaro, quasi bianco e un sapore decisamente aromatico, tra il floreale e il fruttato.
Tende invece al grigio il miele di eucalipto, sempre di provenienza meridionale, che cristallizza in modo fino”.
“I terreni migliori per l’apicoltura sono quelli dove si verificano abbondanti fioriture o vi siano piante fruttifere come: AGRUMI, mandorle e ciliegi”.
“In Puglia, le zone dove l’apicultura ha radici più forti, sono il Salento, il Tarantino e alcuni tratti del Gargano. Nel Salento, in special modo, si possono ancora vedere – anche se sgretolati dal tempo, e dei quali si perderà presto la memoria – gli APIARI, antichi alveari che non hanno riscontro il altri posti. Chi non li conosce difficilmente riesce a capire a cosa potessero servire questi Monumenti di tufo inseriti nelle grandi masserie. Si tratta di Arnie scavate pazientemente nella dolce e malleabile pietra pugliese, e accatastate una sull’altra fino a formare un vero e proprio condominio per le api. Sarà un peccato se tutto questo è destinato a scomparire. Meglio sarebbe che questo pezzo di storia della nostra civiltà contadina potesse essere conservata in un museo”.
Fig.2: Si riconoscono: don Francesco Campana,Parroco della SS.Annunziata; il sarto Antonio Carella e il Massaro Colucci-Carluccio.
L’ Apiaro è quello esistente presso la Masseria Ospedale in agro di Mesagne.
AGGIUNTE E NOTE DI SIMBOLOGIA SUll’AGRUMETO ED IN GENERALE SUI FATTI E I NOMI INCONTRATI
Articolo di ELENA LOEWENTHAL apparso sul Quotidiano LA STAMPA di Sabato 26 marzo 2005, pag.23, settore Cultura e Spettacoli.
IL PARADISO? SI RICONOSCE DAL PROFUMO
DAL MITO SUMERICO, AL CORANO, ALLA BIBBIA, ALL’attualit’a’, tutti i Significati d’un luogo irraggiungibile
L’ INCONFONDIBILE SENTORE E’ RIMASTO DEPOSITATO NELLA GROTTA CHE SI CREDE TOMBA DI ADAMO E EVA.
“” E’ un luogo quasi ubiquo, nel tempo e nello spazio: per questo, da sempre irraggiungibile. Per non parlare di quanto è artificiale, dunque al di là d’ogni possibile dimensione o legge universale. Pensare che la parola è così terrena: in ebraico Paradiso significa semplicemente Agrumeto, oppure Frutteto cintato.
Ed è a sua volta un prestito dal persiano, dove significa più o meno la stessa cosa. Anche Senofonte usa nell’ Anabasi la parola paradeios per indicare i giardini regi della Persia, noti per la loro bellezza.
Il vero Paradiso, però, si riconosce (anzi si riconoscerà) dal Profumo soave edinconfondibile. Una debole traccia, appena un sentore, si è depositata sui corpi di Adamo ed Eva e lì è rimasta anche dopo la loro morte. Se ne può fiutare una pallida reminiscenza nella grotta di Macpela, ad Hebron dove i due antenati sono sepolti, ad irraggiungibili profondità della terra, sotto Abrano e Sara.
Il paradiso, cui Heinrich Krauss, giurista, filosofo e teologo, ha dedicato un volume interdisciplinare che vede oggi la luce in traduzione italiana (Donzelli Editore, 162 pp.) è un concetto, oltre che un luogo più o meno fantastico. E’ il punto di origine, la prima dimora dell’umanità, oggetto di un’inguaribile nostalgia. Ma è anche la destinazione ultima, per chi se l’è meritata. Può situarsi sulla superficie della terra ma anche nelle altitudini del cielo, così come in fondo al mare.
E’ il mito sumerico della lieta terra di Dilmum a costituire una delle più antiche testimonianze di questo luogo pre-storico in cui regnavano la felicità e l’armonia. Adamo ed Eva abitavano dal canto loro in un giardino generoso d’acqua e di specie diverse. Dal giardino dell’Eden usciva un fiume, narra la Bibbia, che di lì si dipartiva in quattro corsi, generando quattro mitiche regioni, fra cui quelle del Tigri e dell’Eufrate. Qui il paradiso è un tripudio ecologico e non ancora la meta escatologica. Solo più avanti, infatti, il paradiso si sposta verso il cielo.
Diventerà così il luogo dell’attesa messianica e quello della ricompensa post-mortem. E’ poi diventato la metafora d’ogni beatitudine terrena, che sia essa discutibilmente prodotta da sostanze stupefacenti (i “paradisi artificiali” per eccellenza) o da privilegi d’ordine decisamente più venale (i cosiddetti “paradisi fiscali”).
Il libro di Krauss è una agevole escursione verso paradisi d’ogni sorta, partendo da quello biblico e dai suoi contrappunti. Con anche uno scarno ma significativo corredo iconografico
Questo saggio è anche, indirettamente, un contributo al confronto tra le religioni – tema scottante di questi tempi e certo assai poco paradisiaco. Ma è interessante cogliere le tante affinità del luogo eletto che passano attraverso ebraismo, islam, cristianesimo. “Nel Corano si parla molto spesso della gioia dei beati. E’ però questione dibattuta tra i teologi islamici se il paradiso coincida con il giardino nel quale dimorava originariamente Adamo. In ogni caso, il termine ganna (bosco o giardino), denominazione abituale del firdaus, il paradiso indica un luogo fresco e riparato dal sole, dove scorrono quattro ruscelli e i cui ingressi sono assicurati da porte (sura 3, 133)… Sui piaceri specificatamente destinati alla metà femminile dell’umanità, il Corano non si pronuncia mai”.
Krauss termina il suo viaggio, spesso ricco di descrizioni, con un poscritto dedicato ai paradisi più moderni come le Americhe: man mano che la scoperta si spingeva verso Ovest, infatti, più quella nuova terra assomigliava al luogo mitico delle origini, destando fantasie ed illusioni tenaci.
Forse è bene che sia così: guai a smettere di cercarlo, il Paradiso. Ne morirebbe”.
Articolo di Pietro Sisto apparo sul quotidiano LA GAZZETTA del MEZZOGIORNO di Domenica 12 Febbraio 1995, p.20.
Scoperta la più antica poesia italiana
IL PRIMO FU GIACOMINO PUGLIESE
Risuonarono nella corte di Federico (nel 1234-36) i 32 versi ora ritrovati. Ciò che sappiamo del suo autore, nato con ogni probabilità nella nostra regione. Che potrebbe vantare così una primogenitura non nuova.
“Mentre sono ancora in corso un po’ dovunque e soprattutto nella nostra regione, convegni, seminari, conferenze e mostre su Federico II, sulla sua complessa e contraddittoria figura di grande imperatore e, per così dire, di primo statista dell’Europa moderna, un ulteriore elemento di interesse e curiosità viene in questi giorni dalla scoperta nella Biblioteca centrale di Zurigo di un componimento di Giacomino Pugliese, uno dei più noti poeti della Magna Curia federiciana.
Si tratta di soli trentadue versi che, scritti quasi certamente negli anni 1234-1236, già inducono studiosi della lingua e critici letterari a retrodatare l’origine della lirica
Italiana e a sottolineare ancora di più l’importante ruolo svolto dalla corte siciliana nella nascita e nella affermazione del volgare.
Giacomino Pugliese, in realtà, fece parte di quella nutrita schiera di funzionari, magistrati e notai che con sonetti e canzoni si incaricarono di mantenere viva nel cuore del Mediterraneo la letteratura cortese d’Oltralpe e soprattutto di raccogliere e trasmettere l’eredità dei trovatori di Provenza. Intelligentemente sospesi tra ossequio ai modelli e inventiva letteraria, tra tradizione e innovazione, questi colti e raffinati rimatori, forti della protezione e dell’abile regia dello stesso Federico, riproposero i temi più ricorrenti della letteratura cortese (dell’amore alla nobiltà, dalla fortuna alla virtù) attraverso uno stile alto e aulico e sempre all’interno di una visione volutamente intellettuale del mondo e della vita.
Anzi, furono proprio “poeti della terraferma” come Rinaldo d’Aquino e Giacomino Pugliese ad alternare sapientemente toni giocosi e realistici, moduli popolari e quasi giullareschi ai temi colti e tipicamente provenzali dell’ossequio amoroso e della lode della bellezza femminile.
Famosa di Giacomino la canzone Donna di voi mi lamento della quale è protagonista un innamorato che accusa di tradimento la sua donna e che rievoca con amarezza il momento in cui nacque l’amore:
‘la sera che mi serraste
in vostra dolze pregione’;
ancora più noto e celebrato, poi, il ‘pianto’ per la morte dell’amata che non mancò di riscuotere una grande fortuna, almeno fino al Petrarca
(“Morte, perché m’hai fatta sì gran guerra
Che m’hai tolta madonna, ond’io mi doglio?...”);
perfettamente in linea, infine, con l’aspirazione dei Siciliani a intendere la poesia e la musica come sollievo e svago dell’anima, la canzone Quando veggio rinverdire che con forza attribuiva proprio ai versi la capacità di cancellare le pene d’amore;
“Canto per donar conforto
E li mali d’amore covrire,
chè gli amanti perono a torto”.
Ma se ci è possibile enucleare gli aspetti più significativi e salienti della produzione poetica di Giacomino Pugliese, che certamente non raggiunge i livelli di un Pier della Vigna, raffinato manierista e retore, di un Guido delle Colonne, ormai più maturamente proteso verso le esperienze guinizzelliane e stilnoviste, e soprattutto di un colto ‘notaro’ come Giacomo da Lentini, creatore e inventore del sonetto, rimane imprecisata e misteriosa la sua vicenda biografica. Secondo alcuni sarebbe pugliese di nascita e figlio del nobile Enrico di Morra, giustiziere di Federico; secondo altri, invece, “Pugliese” è un semplice cognome e non una specificazione geografica: inoltre, aggiungono, ancora fino al Cinquecento i termini Apulia/Puglia abbracciano l’intero Mezzogiorno d’Italia continentale.
Analoghe questioni biografiche, in gran parte insolute, pongono, del resto, altri rimatori della Scuola Siciliana talvolta messi in relazione con la nostra terra come Jacopo Mostacci (di Lecce?), Jacopo da Mesagne, Guerzolo da Taranto e Guglielmotto
d’Otranto, autore del sonetto O salve sancta ostia sacrata, particolarmente interessante da un punto di vista linguistico per la presenza di un complesso e articolato intreccio di “segni” meridionalii e tosco-settentrionali.
Ma, per tornare al nostro Giacomino, non ci rimane, a questo punto, che attendere ulteriori sviluppi delle ricerche e, perché no, sperare che lo stesso codice recentemente scoperto a Zurigo o altre carte conservate in chissà quale sperduta biblioteca possano in qualche modo confermare la sua origine pugliese.
Certo, se così fosse, non solo verrebbero avvalorati i legami , i rapporti culturali tra Federico e la nostra regione di cui si è tanto parlato e favoleggiato, ma alla Puglia, terra di mercanti e marinai, cafoni e contadini, “Pezzenti” ed emigranti, andrebbe finalmente e inopinatamente una sorta di diritto di primogenitura sull’attività letteraria e nella lirica italiana.
Come fu in qualche modo per la letteratura latina, che qui da noi fece i suoi primi passi: con Livio Andronico, con Ennio, con Pacuvio.
Roba da “ Stupire il mondo”.
SIGNIFICATI ED ALTRE CURIOSITA’ SUL MIELE:
Con il miele delle Api i nostri avi hanno fatto il MET.
MET significa IDROMELE.
L’ Idromele è la bevanda dell’immortalità degli Dei. I monaci amanuensi medioevali, nel trascrivere le leggende ha spesso sostituito la voce Idromele con quella di Vino. (Influenzati dai miti di Dioniso e di Bacco).
Presso alcune popolazioni africane, l’idromele è tuttora considerata una bevanda divina, presso altri è considerata la bevanda dei saggi.
Nelle tradizioni di alcuni popoli c’era la credenza che l’ Ape fosse sopravvissuta all’ Età dell’oro, tanto che sulle labbra dei neonati si deponeva un po’ di quel miele sacro che le api avevano estratto dai fiori dell’arancio, o da quella della rosa o anche dalla margherita.
Nella tomba di Childerico, re dei Franchi (V° Sec.), che rappresenta il momento più antico della monarchia francese, quando fu scoperta nel 1653 nella città di Tournai, vennero trovate trecento api d’oro.
SIMBOLOGIA DEL MIELE: - Beatitudine futura.
Latte e miele. Secondo la Bibbia il Signore promette di condurre il suo popolo in una terra ove scorre latte e miele, allusione simbolica, secondo i teologi, alle delizie celesti ed alla beatitudine futura; perché tra i nostri cibi questi erano ritenuti i più dolci e squisiti, fruibili senza molta fatica e non richiedenti alcuna preparazione o condimento, ma ci vengono concessi per liberalità e grazia di Dio e non ottenuti per industria dell’uomo.
- Dolcezza della verità.
Fico e Miele che gli Egiziani sacrificavano a Mercurio, accompagnando l’offerta con il grido di parole che significavano: dolce verità.
Nuccio Pasimeni
Mesagne 31.12.2013 – giorno di San Silvestro.