Ogni lingua è necessaria (di Marcello Ignone)

Il 17 gennaio 2019 scorso si è tenuta la settima edizione della “Giornata nazionale del dialetto”, divenuta nel 2013 “Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali”;

in questo giorno in molti angoli d’Italia si è parlato della e nella lingua locale; ci sono state, infatti, iniziative diverse sul tema della salvaguardia e della valorizzazione delle lingue locali.

Il giorno scelto non è casuale, perché si commemora sant'Antonio abate ed è il primo giorno di Carnevale; un tempo si svolgevano manifestazioni della civiltà contadina, come la benedizione degli animali, o feste tradizionali come i falò; non dimentichiamoci, poi, che molti comuni o borghi italiani hanno per patrono proprio sant'Antonio abate.

Insomma, è una data fortemente legata alle nostre secolari tradizioni e, quindi, adatta sia per organizzare manifestazioni che per valorizzare e conoscere le lingue usate dai nostri avi.

Del resto, oggi si parla tanto di sapori a chilometro zero, salvo poi non rendersi conto che si sta perdendo il suono, il ritmo, il gusto e la bellezza delle parole a centimetro zero!

Chi è nato e cresciuto prima del boom economico ha ascoltato da bambino queste parole, le parole dei nostri avi, dei nostri genitori, e si è formato con esse perché quelle parole tramandavano un mondo. Dice Erri De Luca: “Chi ha smesso di usare il dialetto è uno che ha rinunciato a un grado di intimità col proprio mondo e ha stabilito distanze”. Allontanando il dialetto, la lingua madre, si è allontanato quel bambino dal mondo nel quale si è formato, da un modo di intendere il mondo, da un modo di osservarlo e valutarlo.

Per molto tempo si è visto il dialetto come un nemico della lingua nazionale, con danno enorme anche per le nuove generazioni, quelle venute dopo il boom economico. E solo da qualche anno (la “Giornata nazionale del dialetto” è alla settima edizione) oltre a chiedere di salvare il dialetto e le lingue locali, si è deciso di passare all’azione, dal momento che non sono sufficienti gli eroici e solitari poeti dialettali, pur meritevoli, così come non basta più qualche sparuto emigrato che, andato via mezzo secolo fa e di ritorno al paese di origine, spiccica a parenti e amici parole in dialetto ormai non più note, appartenenti ad un mondo fermo solo nella mente dell’emigrato. Così come non bastano più le Amministrazioni, poche in verità, che intitolano vie e piazze a propri cittadini o mettono la doppia denominazione delle vie e delle piazze o del paese stesso.

Infine, non vanno idolatrati, come purtroppo accade, gli estremi: globale - locale, una lingua comune buona per l’economia digitale, e una delle mille lingue locali, buona nei rapporti familiari.

Ogni lingua è necessaria, ed è autoritaria e schizofrenica la strada dell’uniformità linguistica (Globish), ma è altrettanto sbagliato parlare di una innocenza primigenia del dialetto.

Dialetto e lingua nazionale, infatti, si sono evoluti, non sempre in armonia, grazie ad un rapporto osmotico, e si nutrono reciprocamente di parole, al punto che, come osserva Tullio De Mauro, questa operazione di continuo scambio tra i dialetti e l’italiano è oggi ancora più urgente e necessaria, sia perché il dialetto “è destinato ad una lenta, dolorosa consunzione, nel processo di adeguamento alla lingua nazionale” (Masiello), con il risultato di perdere la nostra identità etnica, ma anche perché la nostra stessa lingua nazionale è sotto attacco, soprattutto sotto assedio mediatico, forse perché in pochi leggono e in molti digitano.

Marcello Ignone

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