“Per amore del mio popolo non tacero’ “. in ricordo del vescovo Antonio Riboldi

Luca Kocci di manifesto 4ottobre

 

È morto a Stresa (Vb), nella casa dei Rosminiani dove alloggiava già da qualche mese, lo scorso 10 dicembre, mons. Antonio Riboldi, 94 anni, vescovo emerito di Acerra (Na).

La sua vita e la sua azione pastorale sono legate a due emergenze sociali che lo hanno visto in prima linea schierato con il popolo che gli era stato affidato: il terremoto del Belice del 1968 e la camorra napoletana degli anni ’80.

Nato a Tregasio (Mi), il 16 gennaio 1923, terzo di sette figli di una famiglia di modeste condizioni economiche, entra giovanissimo, a 13 anni, nell’Aspirantato rosminiano di Pusiano (Co). Ordinato prete nel 1951, dopo aver operato in diverse case dei Rosminiani, il 15 agosto 1958 viene inviato come parroco a Santa Ninfa, nel Belice, in Sicilia, nella Diocesi di Mazara del Vallo (Tp). Dieci anni dopo, nella notte fra il 14 e il 15 gennaio 1968, Santa Ninfa viene rasa al suolo dal terremoto che colpisce il Belice, uno dei più devastanti della storia dell’Italia repubblicana (oltre 350 morti, mille feriti, diecimila sfollati). Don Riboldi si salva dal sisma e resta a vivere per anni in una baracca di legno, insieme agli altri sfollati, partecipando e animando la lotta per la ricostruzione del Belice distrutto dal terremoto, denunciando e combattendo contro sprechi, ritardi e ruberie.

«Ad opporsi alla furia della natura e alla voracità degli uomini – ricorda Enrico Fierro (Il fatto quotidiano, 11/12), tre personaggi. Vito Bellofiore, sindaco comunista di Santa Ninfa, Danilo Dolci, che nel Belice aveva piantato la sua tenda, e lui, don Riboldi. “In quegli anni – ha ricordato nei suoi scritti Bellofiore – operava un grande parroco, don Riboldi, con cui, io sindaco comunista, e lui sacerdote lombardo, mi trovai a collaborare per la ricostruzione e la rivendicazione dei giusti diritti della nostra popolazione”. E furono scioperi alla rovescia, proteste, marce dei terremotati. A Palermo ma anche a Roma». Nel Natale 1975 don Riboldi fa scrivere a 700 bambini del Belice una lettera di denuncia delle condizioni di vita a sette anni dal sisma a Paolo VI, al presidente della Repubblica Giovanni Leone e ai presidenti di Camera e Senato Sandro Pertini e Giovanni Spagnoli. E nel 1978, a dieci anni dal terremoto, porta 50 bambini, insieme alle loro mamme, a Roma per denunciare ritardi e sprechi: ottengono 300 miliardi dal governo e la solidarietà di Pertini, neo presidente della Repubblica, che definisce il Belice post terremoto come «la vergogna d’Italia».

Sempre nel 1978 Paolo VI lo nomina vescovo di Acerra, terra di camorra. E qui comincia il suo nuovo impegno per la giustizia e la legalità, che sfida frontalmente l’organizzazione criminale. Come quando organizza una storica marcia a Ottaviano, in “casa” del boss della Nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo. O quando, nel 1982, redige e pubblica, firmato da tutti i vescovi della Campania, un profetico documento contro la camorra: “Per amore del mio popolo non tacerò” (v. notizia successiva). «Un’analisi acuta su quanto stava accadendo e una capacità di previsione su ciò che sarebbe avvenuto», spiega ad Adista Sergio Tanzarella, docente di Storia della Chiesa alla Facoltà teologica dell’Italia meridionale di Napoli. «Nel documento – prosegue – si denunciano chiaramente le “risorse” della camorra: droga, estorsioni, tangenti sugli appalti; “una scuola di devianza per i giovani” attratti “dal mito della forza e del rapido, seppur rischioso, guadagno”; “la diffidenza e la sfiducia dell’uomo del Sud nei confronti delle istituzioni”; la consapevolezza della collusione tra politica e camorra; il diffuso senso di insicurezza personale che “determina, non di rado, il ricorso alla difesa organizzata per clan o l’accettazione della protezione camorristica”; l’opacità del lavoro, considerato più una concessione camorristica che un diritto; infine la carenza o l’insufficienza, anche nell’azione pastorale, di una vera educazione sociale, quasi che si possa formare un cristiano maturo senza formare l’uomo e il cittadino maturo».

Anni intensi, non privi di rischi e minacce – tanto che a mons. Riboldi viene assegnata una scorta – che segnano una tappa importante dell’impegno della Chiesa cattolica contro la camorra. Negli anni ’80 inizia a frequentare molte carceri italiane, dove incontra diversi boss reclusi – fra cui lo stesso Cutolo – e numerosi pentiti della lotta armata. E all’inizio degli anni ’90 è protagonista di un discusso e discutibile tentativo di mediazione fra il clan Moccia, magistratura e politica per consentire la “dissociazione” dei boss di camorra, come già era avvenuto per i militanti in carcere delle organizzazioni della lotta armata dell’estrema sinistra (Brigate rosse, Prima linea e altre): un’operazione fermata dalla netta contrarietà delle procure secondo cui la possibilità della dissociazione (con i relativi benefici di legge) avrebbe inevitabilmente bloccato la collaborazione con i magistrati di alcuni boss che avevano iniziato a fare delle rivelazioni importanti per le indagini e il contrasto alla camorra.

PER AMORE DEL MIO POPOLO NON TACERO’

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