Il Seminario sociale di studi Il dialetto del XVIII secolo di Nniccu Furcedda, opera salentina del francavillese Girolamo Bax

Dialogheranno Tommaso Urgese, autore del lavoro di ricerca, Domenico Urgesi e Giacomo Carito col concorso dei soci presenti.

 

“E qui rivengo al mio Niccu Furcedda; perché il suo parlare a me suona italiano più che non paia, e ci riconosco assai forme dell’antico toscano; e vorrei la vita che spira ne’ dialetti vedere nel linguaggio scritto trasfusa: di che s'aiuterebbe , anzi che perderne, la desiderata unità”.

Niccolò Tommaseo,

Girolamo Bax (Faggiano o Grottaglie, 1684 – Francavilla Fontana, 17 agosto 1739 o come più probabile 1740), figlio di Pietro e di Argentia Salicati, visse a Francavilla Fontana e si formò culturalmente a Napoli dove, con l'appoggio economico del marchese Michele Imperiali, poté studiare medicina e per qualche tempo esercitò anche la professione medica. Nel 1713 sposò sua cugina Angela Bax, dalla quale ebbe un'unica figlia, Camilla. Si spense all'età di 55 anni. Bax è noto come autore della farsa pastorale in vernacolo salentino intitolata Niccu Furcedda, in tre atti. L'opera rimase ignota per 160 anni, fino a quando lo storico Pietro Palumbo la pubblicò nella sua Storia di Francavilla, edita a Lecce nel 1869-70 e una seconda nel 1912-14; seguì quella di Rosario Jurlaro nel 1964, quella di Ciro Santoro nel 1985 e infine l’edizione critica di Mario Marti nel 1994. Dell’opera s’interessò, il 1991, M. D’Elia (Due voci attestate nella farsa pastorale salentina "Nniccu furcedda" di Girolamo Bax); Donato Valli, nella sua Storia della poesia dialettale nel Salento (Congedo Editore, 2003) ritenne che la data più probabile di composizione della commedia fosse quella ipotizzata dal Palumbo ossia il 1730, "quando vissero alcuni uomini che vi sono nominati". Secondo il Palumbo, Nniccu Furcedda è ispirato caricaturalmente alla figura di un ricco e spilorcio signore, Giuseppe Scazzeri, proprietario della "masseria di Fallacchia, nel tenimento di Francavilla" (oggi Villa Castelli) come recita l'esergo del manoscritto. Il dialetto fa riferimento a oggetti, costumi, riti propri della cultura antropologica salentina; la stessa geografia rappresenta un territorio caratterizzato da un’agricoltura prettamente mediterranea, percorso dalle serre ("sierri", I, 50), costellato di paesi familiari alla sua storia: Ceglie ("Cegghiu", 111, 598), Oria (II, 367) e il suo protettore Sant'Eligio ("Sant'Aloi"), Veglie ("Vegghi", 111, 599). Forse anche i nomi dei personaggi che casualmente ricorrono nelle battute hanno dietro di sé vicende, mestieri, caratteristiche assai noti tra gli abitanti della città: Cesare il sorciaio, (111, 8), Giuseppe Pozzessiri falegname (1, 387), Giuseppe Uerciu, lo scemo del villaggio (Il, 281), Giuseppe Vistila sarto (Il, 538), Uerra figulo (111, 448). Il radicamento nella vita e nella realtà agricola e pastorale del Salento è totale ed è del tutto omogeneo alla funzionalità del dialetto. Particolare è la forma metrica della commedia, a lungo considerato scritta in endecasillabi variamente articolati secondo l'andamento delle battute dei protagonisti e dell'intreccio. Marti dimostrò che essa è scritta in quel particolare metro che porta il nome di "gliuommero", forma metrica consistente nell'endecasillabo con rima al mezzo. Il termine "gliuommero" non si ferma solo alla natura metrica del racconto, ma coinvolge anche la trama e la costruzione dell'intreccio scenico mediante il ricorso a situazioni ambigue, fraintendimenti verbali, scambi di persone, travestimenti di personaggi come nel caso di Nniccu Furcedda. Questo "gliuommero", questo intrico di situazioni finisce con l'attenuare il realismo del racconto, che è tale soltanto per quanto attiene l'ambiente e il linguaggio, e con l'esaltare invece la capacità inventiva dell'autore, che si compiace nel creare scenari di artificio al solo fine di determinare il riso e il divertimento degli spettatori.

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