100 anni fa, lo scoppio della corazzata "Benedetto Brin": 456 morti (di Domenico Urgesi)

Alle otto della mattina del 27 settembre 1915, a Brindisi c’era un tiepido sole, alitava una leggera brezza di levante, al porto fremeva il traffico di banchina.

Era un lunedì e, dopo la pausa festiva, le attività economiche erano riprese. Erano riaperti i fornai, la fabbrica di mattonelle, i negozi alimentari (allora si chiamavano salsamenterie); ma soprattutto fervevano le attività connesse alla presenza militare nella base navale e nel porto.

C’erano una quarantina di navi e sommergibili, italiane, francesi, inglesi, con i loro equipaggi; e poi c’erano anche i marinai dislocati a terra, nel castello svevo e in quello alfonsino; e c’erano anche i bersaglieri; il totale dei militari forse era più di 3.000. Ma sopra a tutte le imbarcazioni svettava la corazzata B. Brin, con i suoi 943 uomini che componevano l’equipaggio. Era lunga 138 metri, e larga 23; perciò era ancorata nel porto medio, affiancata dalla nave francese Borée , dalla gemella Regina Margherita, dalle navi Leonardo da Vinci, Nino Bixio, Giulio Cesare, Dante Alighieri, e da altre.

Nel porto interno, vicino al castello e di fronte all’albergo “Internazionale”, trasformato in “Ospedale militare”, erano ormeggiate altre navi, quelle di minore stazza: francesi, italiane, inglesi e un paio di sommergibili.

La popolazione di Brindisi era di circa 26.000 persone, quella di un grosso paese, per lo più contadini, pescatori, commercianti. La guerra aveva cambiato anche il lavoro e la vita di molti brindisini: prosperavano le attività legate alle vicende belliche; si era ridotto il commercio estero, specie con l’impero austro-ungarico. Brindisi era stato il terminale italiano più importante del Lloyd Austriaco e del Lloyd Triestino”, le due principali compagnie di navigazione dell’impero austro-ungarico; quando iniziò la guerra le sedi brindisine furono chiuse. Prosperavano i fornai: bisognava dar da mangiare a migliaia di soldati; e prosperava, quindi, il commercio della farina. La pesca, invece, era stata vietata, per ragioni di sicurezza, sia interna che esterna; primo: perché il movimento nel porto era soggetto a rigidi controlli; secondo: perché le mine disperse dagli austriaci nelle acque prospicienti Brindisi erano una grossa fonte di pericolo per gli stessi pescatori. Le navi civili, per questo motivo, erano scortate fino al largo dai cacciatorpediniere.

Alle 8 e cinque minuti, i brindisini che ancora erano intorpiditi furono svegliati da un boato terribile, quelli che erano già svegli sussultarono e, col cuore in gola, corsero verso il porto per vedere che cosa fosse successo. Una densa e alta colonna di fumo si levava dal porto medio; quando il fumo si diradò, la nave corazzata Benedetto Brin non c’era più. Fino a pochi minuti prima risuonavano fino a terra le operazioni che avvenivano di consueto su tutte le navi: l’alzabandiera, gli squilli di tromba per accogliere gli alti ufficiali, i fischi dei comandi. Ora risuonavano, al porto e nelle strade di Brindisi, grida di preoccupazione: “corri”, “venite”, “che è successo?”, “andiamo a vedere!”.

Era accaduto che la nave Brin era scoppiata. Quello che ne restava era affondata, adagiandosi sui bassi fondali. Dalle navi vicine, ma soprattutto da quella francese, che era la più vicina, partirono i soccorsi, per raccogliere i superstiti, per soccorrere i feriti.

Si pensò subito ad un attacco nemico da parte di un sommergibile austriaco o di aerei. Brindisi era stata già bombardata dagli aerei austriaci, sin dai primi giorni dell’entrata in guerra; ma quella mattina non si erano sentiti rumori di aerei, e nessuno ne aveva visti. Si pensò quindi ai siluri di qualche sottomarino. Da 4 mesi Brindisi e le sue coste erano diventate “zona di guerra”, poiché c’era una grossa base navale, la più grande dell’adriatico. Il C.te del porto diede ordine di verificare lo stato delle protezioni; risultò che la rete di acciaio posta a chiusura del porto, fra quello medio e quello esterno, era intatta.

Intanto, tutto intorno ai rottami della Brin erano sparsi i resti di corpi umani, fatti a brandelli e mutilati dallo scoppio.

Alla fine delle operazioni di salvataggio e recupero delle salme, si contarono 456 morti.

Fu il più grande disastro che fosse mai capitato alla marina militare italiana; sin dall’inizio della guerra c’erano stati gravi incidenti ad alcune installazioni militari nei porti di Genova, Spezia, Ancona, ma senza danni così devastanti.

Il Presidente del Consiglio, Antonio Salandra, si arrabbiò moltissimo e intimò al C.te in capo della Real Marina, il duca degli Abruzzi, di accertare se lo scoppio fosse avvenuto per errore umano o per negligenza e di punire severamente i responsabili; non era concepibile che una nave così importante fosse distrutta non in battaglia, ma alla fonda in un placido porto; era un’onta che bisognava cancellare, dando punizioni esemplari.

Furono costituite varie commissioni, e il 3 novembre 1915 una di esse sentenziò che, ...escluse le cause derivanti da agente esterno, quelle da dolo, e quelle da incuria, rimaneva possibile solo quella derivante da “spontanea esplosione delle munizioni contenute nella Santabarbara”.

Il successivo 1 dicembre, il Capo di Stato Maggiore della Armata Navale, Amm. Corsi, confermava questo verdetto; però, lasciava il dubbio se l’esplosione fosse dovuta alle elevate temperature dei locali in cui erano stivate le munizioni oppure a difetti intrinseci degli esplosivi. Ad ogni modo, egli emanò rigide disposizioni sull’uso del munizionamento, rendendo più severe le procedure operative precedentemente adottate.

Fu quindi costituita una commissione tecnica che, dopo alcuni mesi di esperimenti, escluse l’auto-decomposizione delle polveri esplosive, quale agente dello scoppio.

Finalmente, il 6 marzo 1916 fu messa la parola fine alla vicenda, anche da parte del Governo: lo scoppio era stato determinato o dalle elevate temperature dei locali oppure dalla decomposizione delle polveri esplosive. “Le cause precise non poterono essere determinate. [...] Nessuna responsabilità è quindi emersa a carico del personale della Regia Marina. [...]”

La questione sembrava risolta definitivamente, quindi archiviata. Ma non era così: il 2 agosto 1916, nel porto di Taranto scoppiò un’altra corazzata, la “Leonardo da Vinci”, con altre centinaia di morti e feriti. Il ripetersi di questi incidenti aveva messo in allarme sulla possibilità che ci fosse una fitta rete di attentatori al soldo dell’Austria-Ungheria. Il sospetto divenne certezza quando, vicino alla centrale idro-elettrica di Terni, nel marzo del 1916 fu catturato in flagrante un sabotatore, tal Larese Giuseppe. Fu subito creato il servizio di controspionaggio, l’UCI (Ufficio Centrale di Investigazioni). Nel frattempo fu individuato a Zurigo il centro nevralgico delle operazioni segrete austriache contro la Marina italiana e, nel febbraio del 1917, fu organizzato una grandiosa operazione con la quale fu asportato l’intero archivio dello spionaggio marino austro-ungarico; il famoso “Colpo di Zurigo”.

Si intrecciarono, a questo punto, confessioni e delazioni di spie italiane, austriache, tradimenti e contro-tradimenti, scoperti e gestiti (e anche manovrati) dall’UCI. La ingente mole delle carte di Zurigo e di quelle dell’UCI portarono ad incriminare vari persone ritenute responsabili dello scoppio della LDV.

In conseguenza dei nuovi “accertamenti”, nei primi mesi del 1918 fu aperto un procedimento penale per lo scoppio della Brin, presso il Tribunale Militare di Roma. Imputati del sabotaggio erano: Giorgio Carpi, Achille Moschini, Guglielmo Bartolini, Michele Azzoni. La causa ebbe inizio il 7 luglio 1918; la sentenza fu emessa il 1 agosto 1918. Colpevoli furono dichiarati il Carpi ed il Moschini (condannati a morte); complice il Bartolini (ergastolo); assolto l’Azzoni. Avverso la sentenza, i condannati proposero ricorso. Il Tribunale Supremo Militare rigettò il ricorso dei condannati; per loro fortuna, la condanna a morte non fu eseguita subito.

Carpi e Moschini presentarono domanda di Grazia, che fu accolta. Perciò, la loro condanna fu commutata in ergastolo nel marzo del 1919.

La condanna di Carpi fu ridotta a 23 anni nell’agosto del 1939; nel 1940 fu liberato.

La condanna di Moschini fu ridotta a 20 anni nel marzo del 1933; nel marzo del 1937 fu liberato.

La condanna di Bartolini non ebbe modifiche; fu liberato dopo la caduta del fascismo e partecipò alla Resistenza nell’appennino forlivese.

La stessa sentenza del 1 agosto 1918 sostiene che non furono essi i materiali esecutori del sabotaggio; erano soltanto complici di “associazione segreta volta ai danni dello Stato, da eseguire mediante ordigni esplosivi”; mai nessuno di essi, pur ammettendo di aver partecipato allo spionaggio, confessò di aver sabotato la Brin.

Allora, chi affondò la “Brin”?

Questi temi saranno approfonditi nel corso del Convegno programmato per martedì 22 settembre presso l’Hotel Internazionale.

Domenico Urgesi

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