Trent'anni di cronaca sotto "Porta Grande". Recensione di G. Florio.

Lavoro prezioso anche se non impeccabile quello di Giuseppe Messe,

68enne decano dei giornalisti mesagnesi. Con la pubblicazione del volume “Mesagne 1985-2014, trenta anni di cronaca in piazza Porta Grande”, Messe realizza il suo personale «masterpiece», l'opera ultima («Sicuramente non ci saranno i prossimi dieci anni», scrive l'autore nell'introduzione, un po' indulgendo alla lacrima): un almanacco in cui ha raccolto con ragionevole puntualità le vicende mesagnesi scivolate lungo tre decenni.

La formula è quella che, nella pittura, sarebbe definita del «pointillisme»: una serie di pillole di cronaca riportate con l'asciuttezza del telegramma che, inanellate, restituiscono un quadro di insieme della storia recente della città. Da questo lato della riflessione il libro è dunque molto utile: perché è l'unica esperienza di storiografia annalistica che riguardi la comunità messapica; perché induce o costringe a mantenere vivo il ricordo (di coloro che non ci sono più, delle brutture occorse, ma anche dei nomi e dei volti di una classe dirigente che nei lustri sembra succedere a se stessa), eludendo i rischi dell'ipocrisia civile; perché individua ed evidenzia quel reticolo di ruoli sociali, relazioni, vicende grazie al quale si possono spiegare molti degli accadimenti attuali.
Trent'anni sono appena ieri: eppure quanti tra i lettori ricorderanno che, appena ieri, a Mesagne si sparava (e si moriva) ancora per le strade? Che le giunte comunali si facevano e disfacevano come la magliaia con un gomitolo? Quanti rammenteranno i nomi e i volti dei tanti figli di questa terra morti in giovane età?
Diverse sono le pecche – sinceramente più di forma che di sostanza – che insidiano la pubblicazione: una correzione delle bozze non all'altezza dell'occasione, qualche episodio inopinatamente traslato da un anno all'altro, l'impaginazione mesta, un font futurista dal vago sapore littorio che campeggia in copertina; in definitiva una sciatteria generale che tuttavia non scalfisce la buona sostanza del libro.
Messe, personalità umbratile, carattere difficile, che piaccia o no è il principale testimone locale del nostro tempo. Lo ha attraversato, anche da protagonista, soprattutto nella vita politica ed amministrativa, lo ha anche condizionato, lo ha certamente scrutato con passione e presenza pressoché incessanti, magari talvolta suscitando perplessità nelle analisi. Anzi, senza voler urtare la (nota) suscettibilità dell'autore, viene da dire che il suo registro migliore (nel senso dell'efficacia pubblicistica) risiede proprio nella stringatezza, nel riportare i fatti senza cercare la terza dimensione, nello svolgere – come dice lui – il «mestieraccio» del cronista, tout-court.
«Con questo lavoro chiudiamo», chiosa un inaspettatamente malinconico Messe, «il tempo è tiranno, mi auguro che qualcun'altro continui». Difficile credere che il vecchio leone si arrenda così, difficile sarà in ogni caso trovare l'erede.

Giuseppe Florio

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