Viaggio nei giochi fanciulleschi praticati un tempo a Mesagne (di Marcello Ignone)

Premessa: Abbiamo cominciato ad occuparci dei giochi fanciulleschi di un tempo ormai passato

(vedi https://www.mesagne.net/cultura/tradizioni-popolari/3069-le-estati-che-furono-di-marcello-ignone) e abbiamo visto che non solo sono lontani dai giochi attuali, ma anche dallo stesso concetto di gioco oggi diffuso.

In questo secondo intervento ci occuperemo di gioco e lavoro e vedremo altri due giochi tradizionali mesagnesi.

Gioco e lavoro

Il gioco ha enorme importanza nella crescita umana, e non solo umana, nello specifico nell’età dell’infanzia e della fanciullezza. Ma anche se è chiara a tutti l’importanza che l’attività ludica ha per lo sviluppo armonico dell’uomo, nel nostro povero Meridione non sempre è stato ben visto dal momento che toglieva tempo al lavoro. Non era infrequente, infatti, vedere qualche genitore rimproverare, o anche peggio, un figlio che si attardava a giocare per strada con i compagni.

La ragione è evidente ancora oggi in Paesi poveri: il bambino è portatore di una quantità di forza lavoro che deve, per la povera economia della famiglia, essere spesa in modo produttivo.

Un tempo non molto lontano, tanti ragazzi lavoravano alle dipendenze di qualche meštru, mentre le ragazze frequentavano la meštra, se già non lavoravano con il genitore in campagna o in qualche bottega. Solo in tempi recenti, quando la scuola media diventerà un obbligo, il lavoro minorile diventerà per tanti solo estivo.

Non si vuol fare un elogio del lavoro “minorile”, considerato lo sfruttamento vergognoso di ieri e, per alcune realtà povere, anche di oggi e la cui gravità non è affatto “minore”, dal momento che riguarda lo sfruttamento della persona e, nello specifico, la dignità di un bambino che ha la sfortuna di essere povero e al quale si toglie anche l’istruzione oltre che l’infanzia.

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, era “normale” a Mesagne come in tutto il Meridione vedere ragazzi impegnati in qualche lavoro e, senza ipocrisie, va detto che il loro sviluppo non ne ha affatto risentito.

Io stesso ho lavorato, durante le lunghe vacanze estive, al bar ti lu Sitili di Ušcaru, il vecchio bar Franco, sede alcuni anni dopo dell’edicola di Franciousu, a servire caffè freddi e gustosi gelati, oppure nella falegnameria ti meštru Ninu ti Puvirieddu (mi ricordo ancora, oltre ai monopattini, la piccola libreria costruita come progetto per la scuola media Marconi), ma anche con mio padre ed i miei fratelli, sia in campagna, a ccarisciari acqua a lla pompa o a raccogliere olive, che come elettricista. Certo, per me non era una costrizione come lo era per altri ragazzi che, per povertà o perché non ne volevano sapere della scuola, andavano a lavorare. Il male non è nel lavoro e nell’apprendistato, perché per tempi e con mezzi e modalità adeguati il lavoro forma.

Un tempo i ragazzi costruivano da se stessi i giocattoli con i materiali che riuscivano a reperire in qualche laboratorio artigianale, a casa o per strada. Adoperando semplici strumenti di utilizzo comune, i ragazzi riuscivano a raggiungere abilità tecnico manuali davvero complesse dal momento che costruire un monopattino, un aquilone, un fucile a molla, un arco con relative frecce e il tutto da un vecchio ombrello, una fionda e tanto altro ancora, non era cosa di poco conto. E spesso facevano ricorso alle umili cose della quotidianità: bottoni, tappi di rame, monetine, fili di ferro, spago, vecchi ombrelli, pietre…

A quel tempo c’era un rapporto personale, diretto ed immediato con il gioco ed il giocattolo, ogni ragazzo stabiliva, nel libero gioco dei gruppi, relazioni interpersonali con altri ragazzi, alla pari, e aveva un contatto simbiotico, organico con l’ambiente naturale di gioco che era soprattutto la strada e gli spazi liberi della enorme periferia mesagnese che penetrava nella campagna, allora molto più abitata e senza i troppi confini di oggi fatti di alte mura, cancelli, sbarre, allarmi…

Oggi non c’è più lo stesso legame tra ragazzo, gioco e giocattolo. I genitori di oggi sono molto più protettivi e forse anche più ansiosi dei genitori di un tempo. Allo stesso modo il gioco ed il giocattolo non hanno più la stessa dimensione personale di alcuni decenni fa, visto che oggi sono imposti come comportamento di massa dalla produzione industriale e dal consumismo.

Il giocattolo è oggi un diritto per il bambino, un diritto acquisito e costoso, anzi più costoso è, più alto è il prestigio sociale che se ne ricava.

I giocattoli sono elettronici e meccanici, altamente specializzati e fabbricati per profitto da un’industria multinazionale che utilizza la pubblicità per imporre l’ultimo giocattolo alla moda, anch’essa imposta. L’industria del giocattolo è strumentalmente pervasiva. Il giocattolo di oggi ha in sé l’intelligenza del gioco, è un oggetto che non richiede abilità manuali ed intellettive; fa tutto da solo.

Pensate soltanto alla differenza enorme tra le bambole di un tempo e gli automi di oggi. Non sono giocattoli con cui divertirsi, sono oggetti da possedere.

In questo modo il giocattolo ha perso la sua essenza e per il bambino di oggi il gioco si esaurisce, paradossalmente, nella scelta del giocattolo e la scelta è così ampia che, una volta compiuta ed esaurito il suo bisogno, il gioco stesso non ha più ragione di essere. Semplicemente passa a volerne un altro, con soddisfazione dell’industria del giocattolo...

Va detto che Mesagne un tempo offriva spazi per giocare: strade, piazzette, cortili, periferie immense… oggi il traffico ha reso impossibile l’utilizzo di tali spazi; anche il verde pubblico, quel poco di verde esistente, non è a misura dei giochi di un tempo. La moderna Mesagne ha deprivato i suoi ragazzi dei loro tempi e dei loro luoghi al punto che il gioco, e purtroppo non solo quello, è stato addirittura confinato negli ipermercati!

 

Due giochi fanciulleschi di un tempo 

Nome: A bbattimurra

Numero giocatori: un gruppo variabile e numeroso, ma non meno di quattro

Genere: maschile

Luogo: all’aperto, per strada

Materiali: un muro e monete metalliche

Descrizione:

Simile ad un altro gioco, a bbattipareti, ma con la differenza che al posto delle monetine metalliche, c’erano solo tappi a corona (quelle delle bibite; il tappo più ricercato era quello dell’aranciata san Pellegrino perché aveva una stella impressa) precedentemente schiacciati (ramiroddi) oppure bottoni (non era inusuale vedere ragazzini che tornavano a casa senza i bottoni dei pantaloni o dei pantaloncini!).

I ragazzi, in numero variabile ma non meno di quattro, altrimenti il gioco non era conveniente, dovevano battere le monete di metallo su di un muro e colpire o avvicinarsi il più possibile ad una delle monete poste o scagliate per terra a debita distanza dal muro. Si tirava a sorte e il ragazzo prescelto poneva una moneta di metallo ad una certa distanza dal muro, tra 1,5 e 2 metri raramente di più. Le monete erano di metallo dal momento che dovevano essere scagliate sul muro per poi cadere per terra e la loro pezzatura, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, variava dai 5 centesimi di lira (un soldo) ai 50 centesimi di lira (mezza lira, anche se era raro vedere battere valori… così alti), passando per i 10 centesimi (due soldi) ed i 20 centesimi (quattro soldi). Più vicino a noi (anni Cinquanta e inizio anni Sessanta) si battevano 5 lire, 10 lire, 20 lire. Raramente si vedevano ragazzi battere 50 lire o addirittura 100 lire.

La scelta di giocare con un certo taglio era chiaramente espressa prima del gioco; infatti il ragazzo scelto dalla sorte poneva per terra una moneta di quella pezzatura. Gli altri ragazzi, a turno, battevano con forza, attentamente dosata, la loro moneta cercando di farla cadere il più possibile vicina o addirittura sopra un’altra scagliata in precedenza. Più erano le monete e più aumentavano sia la posta che le probabilità di avvicinarsi più di chiunque altro ad una qualsiasi delle monete poste per terra. Vinceva tutta la posta chi riusciva a far cadere la sua moneta vicina ad un’altra. Fondamentale era la distanza minima che doveva essere raggiunta tra due monete ed essa era stabilita dai giocatori prima del gioco a pparmu, cioè a palmo, o a mmusura, cioè a misura (il palmo era la distanza che a mano distesa si copriva misurando dal pollice al mignolo; la misura era rappresentata da un pezzo di legno, un ramo o nnu salimientu, cioè un tralcio di vite diritto, oppure una canna, comunque leggermente più lunga del palmo della mano ed in tal caso si poneva più lontano dal muro la prima moneta).

I giocatori dovevano calibrare con perizia la forza che serviva loro per battere la moneta sul muro, adeguando la spinta e ricercando con cura il punto più idoneo della parete per un rimbalzo perfetto e vincente.

  

Nome: A ccavallu t’oru

Numero giocatori: due squadre formate ognuna da 4-6 elementi

Genere: esclusivamente maschile

Luogo: all’aperto

Materiali: nessuno (necessitava un muro o un palo).

Descrizione:

Due squadre formate da un numero variabile di ragazzi, almeno quattro per squadra ma potevano essere anche sei, difficilmente il numero dei giocatori era superiore per via del peso complessivo dei ragazzi. Si tirava a sorte e la squadra perdente si “mittia sotta”, nel senso che ogni componente della squadra si piegava sulla schiena in fila, attaccandosi l’un l’altro all’altezza del bacino, gambe divaricate e testa ben protetta. Il primo della serie si appoggiava ad un muro o un palo. Si formava così un superficie fatta di schiene sulle quali dovevano saltare i ragazzi della seconda squadra, più fortunati nel sorteggio. Questi ragazzi dovevano saltare tutti e mantenersi in equilibrio senza cadere, perché questo comportava la penalità di “mettersi sotto” e sostenere, a loro volta, i compagni della prima squadra. Ma se questi di sotto non reggevano il peso dei compagni e cadevano, perdevano e si rimettevano sotto. Chi saltava, non solo doveva farlo per bene per mantenere l’equilibrio, ma il primo che saltava doveva cercare di farlo il più avanti possibile per lasciare il posto ai compagni della squadra che saltavano successivamente, cercando di non cadere né di provocare, con il salto, la caduta rovinosa dei compagni. Per fare posto i giocatori della seconda squadra che saltavano sul dorso dei compagni, potevano anche lasciarsi cadere di sotto, per liberare spazio agli amici, restando avvinghiati con braccia e gambe all’avversario, faccia a faccia!

Se tutto andava per il verso giusto, il gioco era vinto solo se i ragazzi della squadra di sotto battevano le mani in segno di sconfitta e di riuscita del gioco per i giocatori della squadra di sopra.

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