Dipietrangelo: “Nel sud nuove classi dirigenti più capaci e competenti, meno ascari e struzzi”

Ogni anno il rapporto Svimez presenta, quasi invariabilmente, la situazione economica del Mezzogiorno

che in maniera inesorabile negli ultimi anni si è fatta sempre più drammatica e insostenibile.

La Svimez non è una società né di gufi e né di struzzi, fu fatta all’indomani della seconda guerra mondiale per studiare il mezzogiorno e le politiche pubbliche a sostegno di un suo sviluppo unitario.

I dati forniti anche quest’anno, per chi li ha letti, non differiscono da quelli degli anni precedenti. Sono cambiati forse concetti e termini: desertificazione industriale, rischio povertà in aumento, stravolgimento demografico (nel sud nascono gli stessi figli che nascevano all’indomani dell’unità d’Italia!), il mezzogiorno va verso un sottosviluppo permanente. E poi questa volta è stato introdotto un termine di paragone che ha colpito l’opinione pubblica. Il paragone con la Grecia.

Dal 2000 ad oggi il mezzogiorno ha fatto registrare una caduta del PIL superiore a quello greco. Il sud è cresciuto meno di quella Grecia la cui crisi ci ha fatto conoscere il dramma di questo paese a noi vicino e a noi tanto caro. Un inciso é doveroso e utile per capire ciò di cui si parla: il reddito procapite e i tassi dell’occupazione e di quella giovanile in particolare della Grecia sono superiori a quelli della città di Brindisi!

Tutto questo ha determinato una attenzione nuova verso e nel mezzogiorno che si spera non svanisca, che non sia passeggera, che non diventi la notizia eccezionale su cui scrivere articoli, avanzare qualche richiesta, presentare qualche interrogazione o mozione parlamentare per mettersi a posto la coscienza e stare per qualche giorno sui media.

I dati forniti dalla Svimez non sono nuovi, sono la fotografia che, se pur nota, è stata rimossa per andare dietro a quella che era stata definita “la questione settentrionale”. Eppure bastava leggere in questi anni i precedenti rapporti della Svimez, della banca d’Italia, del Censis, dell’Istat, ecc., per capire cosa stava succedendo nel sud.

E per chi non ama leggere dati o studiare le tendenze economiche, demografiche e sociali, bastava per i meridionali, guardarsi attorno (per strada, per fabbriche, per servizi sociali, per negozi, ecc.), per capire come la lunga recessione e le politiche di austerità portate avanti da tutti gli ultimi governi e dall’Europa, abbiano avuto nel mezzogiorno un impatto molto più forte e duro che nel resto d’Italia.

Dal 2007 al 2015 il reddito procapite, i consumi e l’occupazione hanno fatto registrare una caduta con valori doppi di quelli del nord. Al vecchio divario si è aggiunto un altro e più drammatico, quello prodotto dalla recessione, dalle politiche economiche perseguite con i tagli lineari alla spesa pubblica scaricandoli innanzitutto sugli enti locali come ultimamente denunciato anche dalla corte dei conti.

La discussione in atto in questi giorni mi esime di avventurarmi in una analisi di questi dati e sulla loro ricaduta sulle condizioni del mezzogiorno, della Puglia e di Brindisi. Li suggerisco solo a chi ha responsabilità pubbliche. Così come non affronto in questa occasione la questione degli strumenti, delle risorse, delle procedure necessari ad uno sviluppo nuovo del mezzogiorno.

Voglio invece soffermarmi sul silenzio colpevole che c’è stato sul e nel sud, sul suo sviluppo o degrado, separato dallo sviluppo dell’Italia.

Il mezzogiorno ha bisogno, certamente, di ciò che ha bisogno l’Italia, di investimenti pubblici e privati, di nuove politiche industriali e ambientali, di infrastrutture, di ricerca e di innovazione.

Non aver capito questo ha contribuito all’impoverimento del sud, alla sua desertificazione industriale, civile e demografica. Il Sud così ha subito una sorte di rimozione culturale, politica ed economica.

Partiti, rappresentanti istituzionali ad ogni livello, organizzazioni di rappresentanza di interessi sono stati assenti o afoni. Oggi rischiano di essere poco credibili o di essere definiti “piagnoni e lamentosi” quando ripropongono “a babbo morto” la questione meridionale.

I dati relativi all’andamento del PIL, dell’occupazione, dei consumi, degli investimenti nel sud erano noti almeno ai meridionali e ai loro rappresentanti politici mentre si determinavano nella loro crudezza? E dove erano in questi anni?

Questi dati, senza aspettare il rapporto Svimez, se fossero stati intravisti e conosciuti, avrebbero potuto già creare una consapevolezza per la deriva che da congiunturale, nel sud, stava assumendo (e poi assunto) un connotato strutturale, cronico e forse irreversibile.

La desertificazione industriale, il calo delle nascite, il sottosviluppo permanente, la povertà, denunciati dalla Svimez , dovevano essere conosciuti, se non anticipati per farne argomenti di iniziativa politica e sociale, da chi, con un rapporto con i propri territori, ha responsabilità politiche e istituzionali. Fa un certo effetto negativo la riscoperta della questione meridionale da parte di chi è stato responsabile o connivente delle scelte che la hanno ulteriormente aggravata.

Oggi il PD e purtroppo unico partito, con la discussione avviata nella sua direzione nazionale, sembra impegnato ad una nuova consapevolezza e speriamo che non sia effimera!

Proprio questo PD deve farsi perdonare disattenzioni e silenzi.

In Puglia avevamo avuto già segnali precisi di indifferenza e di superficialità. Quando Renzi venne a Bari per le sue primarie, radunando tutti i suoi “sostenitori” non pronunciò una sola volta il mezzogiorno, malgrado il luogo (la sede della fiera del levante) dove fece il suo discorso programmatico.

Lo stesso Renzi nel discorso alle Camere per presentare il suo governo dedicò pochissimo, con sole parole di circostanza, alla questione. Le stesse scelte del governo di questi mesi sono state in continuità con quelle che hanno contribuito a determinare i dati denunciati dalla Svimez. E non mi riferisco alle emergenze affrontate, ma alla visione e alla necessità di cambiare verso alle politiche per lo sviluppo e al ruolo del sud per una crescita dell’Italia.

Quella che si potrebbe definire “la gabbia degli struzzi” fatta anche di parlamentari meridionali, quasi gli stessi che oggi chiedono iniziative e attenzione per il sud, ha votato non più tardi di qualche mese fa l’art.12 della legge di stabilità per il 2015 con il quale il governo Renzi ha disposto la cancellazione di investimenti nel sud per 3,5 miliardi di euro, tagliando le risorse del piano di azione coesione.

In questi anni nessuno ha protestato, ha reagito. Oggi sembra che ci sia un risveglio. Speriamo bene.

Rimango, però, convinto che nel sud si sia creata, grazie anche a questa “gabbia di struzzi”, un vuoto di leadership, una marginalità della classe dirigente meridionale come non si è mai vista nella storia d’Italia.

Il mezzogiorno di Gramsci, di Salvemini, di Sturzo, di Di Vittorio, ma anche di Amendola, di Pio LaTorre o di Giacomo Mancini, di Moro o di Berlinguer, e tanti altri prestigiosi uomini politici e intellettuali del sud, con caratura nazionale, era una terra più povera di oggi sul piano dei consumi e dei redditi procapite, ma molto più ricca sul piano sociale, culturale e politico.

Il dramma del Sud di oggi è quello di non avere più una prospettiva politica, un rapporto di amore con la propria terra che si potrebbe sintetizzare in “un lottare per restare e restare per lottare e cambiare”, una forma organizzata di rappresentanza politica a livello nazionale.

Il mezzogiorno ha oggi bisogno di una forza politica che lo rappresenti all’interno di una prospettiva nazionale ed europea. Non una forza territorialista(una specie di lega sud),non una forza al comando di chi vuole “scatenare l’inferno”, ma una forza politica nazionale che abbia uno sguardo diverso ed un progetto politico e economico che parte dal sud.

Il PD con il suo pluralismo interno è capace di questa sfida e di questa visione?

Una cosa dovrebbe farla per essere all’altezza: liberarsi di un ceto politico propenso alla intermediazione della spesa pubblica più che alla progettualità, un ceto politico raccoglitore di voti e di clientele, mediocre e pronto a passare da un’altra parte, prono al potente di turno.

Un ceto politico, raccogliticcio e molto simile a quegli “ascari” di cui parlava Gaetano Salvemini per indicare quei deputati, in genere dell’Italia meridionale, che appoggiarono, contro i lavoratori e le forze del socialismo, il governo Giolitti all’inizio del ‘900. Allora meno ceti politi e più classi dirigenti, insomma meno “ascari” e meno “struzzi”.

Bisogna fare presto. Non è sufficiente un “master plan” per il sud né un ritorno a fantomatici accordi territoriali di programma, per cambiare verso al mezzogiorno e per una politica nazionale di sviluppo perché di questa ha bisogno il mezzogiorno e l’Italia.

E tornando alla Grecia va detto che c’è una differenza che nessuno ha evidenziato. Il popolo greco ha dimostrato oltre che una fiera dignità, una grande capacità di mobilitazione, mentre, a parità di dati, nel mezzogiorno sono scomparse le lotte sociali e quella mobilitazione sociale, culturale, di visione nazionale, senza la quale rimane solo la riproposizione velleitaria e centralistica di elenchi di progetti senza visione e di miliardi di euro che periodicamente si mettono a disposizione sulla carta e composti più da risorse europee non spese e future che da risorse nazionali.

Elenchi questi che, se anche nobilitati con il termine inglese di master plan, il mezzogiorno ha già conosciuto e pagato. Va bene l’hastag #zerochiacchiere# che il segretario del PD ha proposto alla sua direzione ma che valga soprattutto per Renzi e il suo governo.

Carmine Dipietrangelo

Presidente LeftBrindisi

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