Chirurgia in convento (di Angelo Sconosciuto).

«De frati Cap(ucci)ni di Misagne» è la frase più frequente, che si legge sui frontespizi o sulle pagine iniziali di un corpus abbastanza omogeneo di volumi,

scampati alla furia delle leggi ottocentesche di soppressione monastica e alla dolosa ignoranza di chi, a conventi abbandonati, ha saccheggiato quei luoghi con l’intento di realizzare – grazie alle pergamene di copertina ed agli ampi fogli di carta realizzata a mano – i contenitori più idonei per i fuochi d’artificio.

Non è un’iperbole: è quanto davvero è accaduto alla biblioteca del Convento dei Padri Cappuccini a Mesagne, una minima parte della quale ora è nella biblioteca comunale di questo centro del Brindisino: oltre venti cinquecentine, giunte nell’attuale collocazione a seguito di immaginabili itinerari iniziati, appunto, con le leggi crispine del 1866.

Tra questi libri balza subito agli occhi un titolo e, con esso, anche la nota di appartenenza. Sul risguardo leggiamo su quattro righe: «Il libro di F(rate) Fortunato da Misagna/ conces(s)o dal M(aestro) P(adre) Carlo Maria da Mace/rata Ministro Ginirale 1685/ Capucino» e voltando pagina, ecco il frontespizio. Si tratta della «Prattica universale di cirugia de l’eccellente M. Giovanni di Vigo ed il dotto compendio di Mariano suo discepolo, opere utilissime, et necessarie/ novamente tradotte per M. Lorenzo Chrisoaria, con sue tavole infine». Proprio il frontespizio di quest’edizione stampata a Venezia riserva altre piccole sorprese, perché accanto alla marca tipografica, a sinistra su due righe si legge: «De Capp(ucci)ni/ di Misagne», mentre a destra, sempre su due righe, con un’evidente, antica cancellazione, vi è la precedente notazione sull’appartenenza: «Loci capuc(cinorum)/ Concep… N.».

Colpisce l’incisione della torre quadrata e merlata incorniciata da un nastro sul quale è scritto “Toresanus Federicus”. Nella marca tipografica c’è, un “nome” di primo piano nell'editoria veneziana del Cinquecento, perchè Federico, figlio di Andrea Torresano il vecchio, è stella di prima grandezza nella storia del libro, sia che abbia pubblicato volumi in proprio, sia che lo abbia fatto in società col fratello Giovan Francesco. Un “nome”, perchè fece parte della Compagnia della Corona ed era imparentato anche con i Manuzio. Era lui, dunque, il più adatto a pubblicare l’opera di Giovanni Da Vigo, anch'egli “stella” di prima grandezza, in un altro campo, quello della medicina. Era di Rapallo, questo medico, ed il suo nome fu legato al cardinale Giuliano Della Rovere che, «eletto papa nel 1503 col nome di Giulio II, lo volle con sé a Roma come suo chirurgo» e proprio in quegli anni pose mano al volume che ci occupa, «opus modernum», come l'hanno definito, «ma in nulla discorde dalle opinioni degli antichi»; libro che gli storici della medicina hanno sempre considerato perchè «in esso sono contenute scoperte ed intuizioni di grande importanza».

Vi si leggono, infatti, cose interessantissime: «Per le lesioni dei crani praticava la trapanazione con strumenti di sua invenzione e per la cura del cancro prevedeva l'estirpazione con tutte le sue radici e vene – ha osservato Maria Muccillo -. Nel libro settimo fornì poi una ricca rassegna in ordine alfabetico delle piante medicinali di cui descrisse con minuziosità, virtù e caratteristiche, dando prova delle notevoli conoscenze in fatto di botanica. Diede altresì un contributo fondamentale per la diagnosi e terapia della sifilide per cui prescrive l'impiego del mercurio». Insomma, un'opera davvero utile, che conobbe moltissime edizioni e traduzioni, una delle quali, appunto, quella che ci occupa, curata da Lorenzo Crisoario e proprio in questa edizione aumentata del dotto compendio di Santo Mariano, quell'importante medico ed urologo barlettano, che solo nella sua città è conosciuto, nella toponomastica, col nome di Sante.

Ebbene, proprio tale edizione era nella biblioteca dei Cappuccini. Meglio: fu collocato lì per concessione del padre Carlo Maria Mandiroli da Macerata. Questo religioso - 31° Ministro Generale del suo Ordine, esattamente 5° anni dopo l’esperienza di San Lorenzo da Brindisi – fu noto per la sua viva intelligenza, perché già a 16 anni era dottore «in ambe le leggi» e perché «delle grandezze della Madre di Dio SS….molto divoto». Gli bastò leggere «la regola di S. Francesco, che professano i Cappuccini» per aderire a questo ramo dell’Ordine francescano, scrisse l’abate Giuseppe Colucci nel tomo XIV delle sue «Antichità picene» (1792). Ed infatti, continuando il suo discernimento, il Mandiroli, «capitato… in Macerata il P. Andrea d’Ascoli, Provinciale in quel tempo, a lui si presentò per essere ammesso, e ricevuto fu mandato in Cingoli dove il 19 d’aprile del 1636, indossò il sacro abito per le mani di P. Anselmo della Barbara Maestro di Novizzi (sic!)». Da allora, la sua vita di religioso, lunghissima, fu un continuo rendere servizio nei luoghi e negli incarichi, nei quali fu chiamato, in Italia ed all’estero.

«E nel 1678 – ricordò Colucci – fattosi nuovamente in Roma il Capitolo generale, restò di ben nuovo eletto Definitore, e dal nuovo eletto Generale, fu mandato Visitatore generale in tutte le provincie della Germania superiore; donde ritornato in Roma per Capitolo generale, tenuto nel 1685, essendo ben note agl’Italiani non meno che agli oltramontani le instancabili fatiche del P. Carlo Maria per la sua religione ai 26 di Giugno cadde in lui la elezione a Ministro generale dell’Ordine» e «terminato il corso del suo Generalato nel 1691, si restituì in Macerata sua patria e rinunziato ad ogni altro pensiero per lo spazio di cinque anni, che sopravvisse attese soltanto alla santificazione di se medesimo e ai 19 di Luglio del 1697 in età di 83 anni, e 61 di vita religiosa pieno di meriti, e di fatiche cessò di vivere».

Quel libro, dunque, giunse a Mesagne per volontà del Generale? Probabilmente e la data scritta sul risguardo allude proprio alla data di elezione del P. Carlo Maria. Ma quel libro – ci si chiede – fu utile al P. Fortunato «da Misagne» o fece solo bella mostra di sé negli scaffali della biblioteca? Non ci sono note a margine che testimonino un aggiornamento con osservazioni, ma si può esser certi che il libro fu utile, dentro e fuori le mura del convento, e non solo perché – come riferito innanzi – vi era un completo repertorio delle piante medicinali. Pensiamo un po’ a quei tempi; a quanta gente bussava alla porta del convento per ottenere anche beni materiali e conforti. Va ricordato che in quel volume «larga fortuna godettero i suoi suggerimenti farmacologici per la cura delle ferite sia interne che esterne e, a questo riguardo, particolarmente importante è stato considerato il libro terzo De vulneribus dove egli riassume gli esiti delle sue esperienze nel campo delle ferite causate da arma da fuoco». Immaginiamo dunque la gente ferita, nello spirito e nel corpo, bussare al convento mesagnese: c’era “lavoro” non solo per il p. Fortunato, ma anche per altri suoi confratelli ed esso fu proseguito finché fu possibile e per circa due secoli ancora.

 

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