«Una lettera del 43». Parte da Mesagne l'avventura di La Capria. (di Giovanni Galeone).

Non sarà un caso che nel libro postumo di Raffaele La Capria in libreria da qualche mese

(Tu, un secolo. Lettere – 161 pagg. – Mondadori), lo scrittore napoletano è voluto ritornare idealmente lì dove tutto era iniziato, nelle campagne di Mesagne durante la guerra presso Castello Acquaro, dove scrisse il suo primo testo letterario Una lettera del ’43, riproposto integralmente a chiusura del libro ultimo. A testimonianza del valore di questo scritto (pubblicato poi nel ’74 in False partenze), un testo breve ma importante perché i temi riportati in quell’esordio giovanile sono ripresi e rielaborati continuamente in tutta la narrazione lacapriana.

Predisposto in anticipo quasi come l’ultimo regalo ai posteri, il libro consiste in una raccolta di lettere scambiate nell’arco di settant’anni con il fior fiore dell’intellettualità italiana. Poche le lettere di La Capria, anche perché come dice la Szymborska, citata nella nota introduttiva “conta di più chi ti conosce di chi conosci tu”, molte invece quelle di scrittori e amici,  da Moravia a Montale, dalla Ortese a Parise, tra quelli tuttora attivi Magris, Veronesi, Albinati, Trevi, l’autore dei suoi Meridiani Silvio Perrella, ed anche critici letterari come Berardinelli, La Porta, poi il filosofo Sossio Giametta, il regista Pupi Avati, i giornalisti De Bortoli e Ferrara ed altri.

Questa silloge di lettere richiama il tema del rispecchiamento, peraltro molto frequente nella narrativa lacapriana, egli scrive “le lettere sono lo specchio in cui mi guardo e che mi rimanda lo sguardo dei miei lettori, loro mi scrivono per quello che ho scritto, sono state le mie parole a provocare le loro”. E così ci si può imbattere in Moravia che raccomanda l’editore Bompiani di pubblicare il primo libro di un nuovo scrittore intitolato Il circolo vizioso che poi diventerà Un giorno d’impazienza, Montale che gli invia uno scritto riparatorio dopo un giudizio aspro su Ferito a morte, condizionato dall’attribuzione del romanzo all’avanguardia letteraria.

Tra le lettere di La Capria spicca invece quella scritta, ma mai inviata, a Pier Paolo Pasolini, nella quale l’autore napoletano replica a un articolo dello scrittore friulano, di cui pure ammirava l’indipendenza intellettuale, che l’aveva rimproverato di subire il ricatto dell’avanguardia a proposito di Amore e psiche, il terzo romanzo di La Capria del ‘73, finalista al Campiello, nella missiva La Capria sottolinea la sua autonomia: “Ma io ho scritto sempre così, dal mio primo romanzo del ’52 Un giorno d’impazienza, quando l’avanguardia non esisteva, a Ferito a  morte scritto nel ’60 quando l’avanguardia non avrebbe fatto in tempo a ricattarmi”.

Ed esaminando le lettere ricevute emergono nitide le leggende della narrazione di La Capria, “la bella giornata”, bella per conto suo come la natura che è indifferente al destino dell’uomo, una gioia che sembra lì a portata di mano, un’idea ostinata in fondo alla testa accompagnata allo stesso tempo dalla dolorosa percezione della sua distanza, della sua irraggiungibilità, la bella giornata è la struttura simbolica che accomuna i tre romanzi iniziali, scritti a distanza di un decennio uno dall’altro che diventeranno un’antologia della casa editrice Einaudi intitolata Tre romanzi di una giornata.

Ferito a morte, il capolavoro di La Capria dal folgorante incipit della spigola sott’acqua, è una storia di giovani inconcludenti che sprecano inutilmente il loro tempo, una critica della borghesia napoletana raccontata dal di dentro con stile antesignano fatto di flashback, monologhi interiori, flussi di coscienza, discorsi indiretti. Su questo libro, vincitore del premio Strega nel ’61, si sofferma in un’intensa lettera Claudio Magris che avendolo letto più volte “scopre ogni volta nuovi aspetti e significati, così come si scoprono in un volto amato in molti anni di vita condivisa, nuove bellezze e nuove sfumature di incanto” e annovera il capolavoro di La Capria tra i classici destinato a restare e a vincere l’abrasione del tempo “perché  ha anticipato le sperimentazioni stilistico-strutturali della neoavanguardia e critica al romanzo tradizionale, di cui conserva ma rinnova l’aura poetica facendo sì che il tema diventi stile; ed è stato forse scomodo sia per i tradizionalisti sia per i narratori sperimentali che li contestavano.”

Con Sossio Giametta e Silvio Perrella risalta il mito di Palazzo Donn’Anna, l’antico palazzo di via Posillipo affacciato sul mare dove La Capria ha trascorso l’infanzia e la prima giovinezza, è il luogo simbolo di Ferito a morte, “con le sue ombre spettrali e la sua luce folgorante era già una buona metafora della mia immagine mentale di Napoli” e a distanza di anni “ancora lo penso come un corrusco galeone pronto a salpare….lo ricordo nei bagliori del mattino come una grossa spugna gonfia di luce appena emersa dal mare”.

Dopi i tre romanzi iniziali La Capria si sposterà verso uno stile misto, una conversazione narrativa e insieme saggistica, a volte di impianto autobiografico, con una lunga produzione editoriale durata tutta la vita, che sarà ripresa in ben 2 Meridiani. E su uno di questi libri della seconda fase, A cuore aperto uscito nel 2009 dopo una degenza ospedaliera per un infarto, si sofferma Alfonso Berardinelli, critico letterario antiaccademico e tra i più irriverenti, il quale gli scrive che non può fare una recensione, lui è un critico “ma deve esserci qualcosa da criticare, qualcosa che risvegli il dèmone dialettico…il compito della critica è eliminare gli ostacoli e i materiali d’ingombro” e lì non c’è nulla da criticare, può solo scrivere una lettera per dire che “l’ammirazione, la compiutezza e l’armonia gli tolgono ogni parola”.

Nel libro sono riportate alcune lettere stilate dopo la scomparsa di Dudù (era il nome con cui lo scrittore era chiamato dagli amici), Emanuele Trevi nel riconoscergli “la capacità di trasformare ogni dettaglio , anche il più privo di seduzioni apparenti, in un microcosmo e dunque in un geroglifico del Tutto” gli scrive “il tuo mondo consiste esattamente nella quantità di esteriore che è riuscito a diventare interiore…e questa è stata sia la tua suprema libertà di uomo che la sostanza più preziosa del tuo stile – riconoscere, distinguere, percepire, e infine accogliere per restituire in forma di parole”.

Libro di intrigante e agile lettura per ripercorrere l’esperienza di uno degli scrittori più importanti e amati degli ultimi decenni e assaporare i contenuti di quell’esordio letterario pugliese che l’autore ha sempre portato con sé, “trasformandolo secondo la curvatura che il tempo via via imprimeva alla sua scrittura”.

Giovanni Galeone

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