Messe nero? Orrore! l'ultimo Maresciallo d'Italia fu monarchico, massone e anticomunista (di Aldo A. Mola)..

Riceviamo e volentieri pubblichiamo, dall'Associazione di Studi Storici Giovanni Giolitti, un Editoriale sul Maresciallo Messe del prof. Aldo A. Mola

 

Messe sull'Appia...

Mesagne è una cittadina tranquilla del “tacco d'Italia”, tappa dell'ultimo tratto della Via Appia che, sin dall'antica Roma, da Taranto conduce a Grottaglie, Francavilla e approda a Brindisi, “valigia delle Indie”. Terra di Messapi (lo documenta lo splendido museo archeologico nel Castello eretto nel Cinquecento da Orsini Del Balzo, principe di Taranto), fu per secoli transito di Cavalieri Templari e, con Federico II Staufen, presidio di quelli Teutonici. La popolazione, usa alla cucina mediterranea (cozze, polpi, agnelli, uova, fave, farine...) e a vini eccellenti, ha visto passare la storia a occhio asciutto. Nel 1861 aveva 7.000 abitanti. Ora ne conta 27.000, una ventina di chiese, un santuario, alberghi confortevoli e le sue risorse vere: il clima temperato dalle brezze marine, un giorno di nebbia l'anno, 15 di pioggia e il rispetto del proprio passato. Vent'anni fa il Comune ricordò con un convegno di studi il concittadino più famoso, Giovanni Messe, ultimo Maresciallo d'Italia (Mesagne, 10 dicembre 1883 – Roma, 12 dicembre 1968).

Lo storico Paolo Crociani ne ha scritto un accurato ed equilibrato profilo per il Dizionario biografico degli italiani. Nel 2006 l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito pubblicò l'opera di Luigi Emilio Longo, Giovanni Messe. L'ultimo Maresciallo d'Italia (pp. 663), frutto dell'esplorazione del vasto fondo documentario poco prima approdato all'Archivio dell'US-SME, completo di cimeli.,

Scuola elementare obbligatoria e gratuita e “sacro dovere del cittadino”

Lo scorso 10 ottobre, nel Convegno di studi su “Il lungo regno di Vittorio Emanuele IIII. Gli anni delle tempeste (1938-1946)”, organizzato a Vicoforte dall’Associazione di Studi Storici intitolata a Giolitti in collaborazione con enti e istituti, come il Comando Militare Esercito Piemonte, gli ex Allievi della Nunziatella e la Consulta dei senatori del regno, il generale Antonio Zerrillo, di stirpe sannitica, ha svolto la brillante e inappuntabile Relazione su Il Maresciallo Giovanni Messe e la riscossa del Regio Esercito Italiano. Nelle conclusioni ha ricordato il monumento da decenni decretato al Maresciallo dal Comune nativo, ma mai ultimato. Appassionato di storia, per anni il generale Zerrillo ha promosso convegni, mostre e riti memoriali dell'Italia nella Grande Guerra (1915-1918), sulla scia delle iniziative promosse nel 150° della proclamazione del Regno d'Italia (2011) che vide le Forze Armate in prima linea nel recupero della memoria, quando ancora molti straparlavano di autonomie, separazioni, persino di secessione, e strizzavano l'occhio a indipendentisti catalani e ad altre minoranze visionarie, attardate ai margini della storia. Oggi sono ormai “agli atti” i collegamenti tra l'ETA, l'IRA e Stati che miravano alla destabilizzazione dell'Europa.

In tante occasioni, tra 150° del Regno d'Italia con Vittorio Emanuele II sovrano costituzionale e centenario della Grande Guerra, furono evidenziati i due pilastri fondamentali dell'unità nazionale: la scuola obbligatoria e gratuita e il servizio militare, altrettanto obbligatorio. Lo ribadirono i Costituenti (con l'astensione di Aldo Moro e Benigno Zaccagnini) e molto ne scrisse Oreste Bovio, generale di corpo d'armata e già capo dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito. Il ricordo del ruolo svolto dal servizio militare nell'unione effettiva della nazione era ed è ancor più importante da quando esso è sostituito con quello “civile”, talora tiepido nei confronti dello Stato, che si eleva al di sopra di ogni fazione e sintetizza gli interessi generali permanenti dei cittadini. Lo si riscopre oggi dinnanzi a un'epidemia comunque transitoria. Bisognerebbe averlo chiaro guardando oltre i confini politici, in una visione matura dell'Europa centro-occidentale e del Mediterraneo, il cui versante settentrionale è sempre sempre più “a rischio” per la miopia di una “dirigenza” abborracciata, priva di cultura storica, ripiegata sulla quotidianità e sul proprio “particulare”: rinviare per stare, motore immobile come Dio per Aristotele.

Da Mesagne a San Vito dei Normanni

Per chissà quale congiunzione astrale, proprio mentre Zerrillo illustrava a Vicoforte la figura di Messe, a Mesagne si accese un faro sulla sorte del busto del Maresciallo, da anni pronto per essere collocato all'aperto quale “Memoria” e monito della complessa storia d'Italia. Ma chi fu Giovanni Messe? Umili genere natus (quinto degli undici figli di Oronzo, muratore, e di Filomena Argentieri), ancor prima di completare la scuola elementare andò garzone. Si arruolò diciottenne in un plotone allievi sergenti di fanteria. Solo chi ci è passato sa come erano le caserme dell'epoca e quale fosse la vita dei coscritti. Bisognava anzitutto insegnare ad “andare al passo”, a stare in fila e a imbracciare l'arma a giovani dai corpi allenati alla fatica ma privi dei rudimenti dell'educazione fisica, premessa indispensabile della vita, che è disciplina (non solo quella militare).

Per virtù sua e perché la Terza Italia dal 1860 in poi promosse l'ascesa sociale dei cittadini come mai era avvenuto prima, né purtroppo accade da decenni di caricatura della democrazia (“uno vale uno” è la negazione dell'endiade merito/gerarchia), Messe percorse una carriera straordinaria, sino al grado di Maresciallo d'Italia, conferitogli il 12 maggio 1943 al termine della tetragona resistenza in Tunisia contro gli inglesi mentre gli americani erano già vittoriosi sui tedeschi. Messe aveva alle spalle vent'anni quasi ininterrotti di guerra: da quella del 1911-1912 contro i turchi per la sovranità dell'Italia su Tripolitania e Cirenaica al fronte dell'Isonzo, ove, a richiesta, giunse dalla Libia nel gennaio 1917. Pluridecorato, ferito, tornato in linea dopo Caporetto tra gli Arditi, egli meritò una medaglia d'oro al valor militare per il suo reparto e una d'argento per sé, accompagnata dalla croce di cavaliere dell'Ordine militare di Savoia.

Il 15 aprile 1923 Vittorio Emanuele III lo volle aiutante di campo. Messe lo rimase per quattro anni. Comandante del presidio militare di Zara (1929), generale di brigata in Eritrea (1936), generale di divisione nell'occupazione dell'Albania (1939), nella guerra contro la Grecia (ottobre 1940) ebbe il comando del corpo di armata “speciale” poi assegnato all'occupazione di Atene. Nel 1941 comandò il Corpo spedizione italiana in Russia (CSIR), poco e male preparato dal governo Mussolini, corrivo alla retorica degli “otto milioni di baionette”, del “tanti nemici, tanto onore” ma incapace di coniugare ambizioni bellicose con preparazione scientifica, industriale ed economica, presupposti della produzione di guerra, e di una visione strategica del conflitto, come ha efficacemente spiegato il colonnello Carlo Cadorna al convegno di Vicoforte.

Nominato generale d'armata al rientro dalla Russia, pluridecorato dal re e apprezzato dai tedeschi, che gli conferirono la croce di ferro di prima classe, nel gennaio 1943 Messe fu assegnato al comando della 1^ armata in Tunisia contro l'avanzata degli inglesi, ormai padroni della Libia. Si condusse al di sopra di ogni elogio, sino alla resa forzata e alla nomina a Maresciallo d'Italia. Fatto prigioniero, fu tradotto in Gran Bretagna. Mai colluso con il regime di partito unico, era il militare espressione della nazione italiana in armi.

Perciò dopo il trasferimento da Roma a Brindisi, all'indomani dell’annuncio dell'armistizio e del caos che ne seguì anche per la distribuzione del grosso dei militari al di fuori dei confini nazionali (Jugoslavia, Grecia, Provenza...), su indicazione di Vittorio Emanuele III il nuovo capo del governo, Pietro Badoglio, ne chiese il rilascio dalla prigionia e il rientro in patria. Anziché semplice ispettore generale, come ventilato dal Duca di Addis Abeba, per intervento del re il 18 novembre 1943 Messe fu nominato Capo di Stato Maggiore Generale. Da San Vito dei Normanni, due passi dalla nativa Mesagne, si dedicò con successo alla riorganizzazione dell'Esercito: dal Raggruppamento motorizzato al Corpo italiano di liberazione e ai Gruppi di combattimento, mentre il governo era sempre più assillato e lacerato dalla contesa tra i partiti, quattro su cinque nettamente contrari alla monarchia.

Rimosso dalla carica il 1°maggio 1945, Messe guardò con preoccupazione alla politicizzazione della polizia (nella quale vennero immessi molti partigiani militanti di partito, in specie ex “garibaldini”) e fu tra quanti tennero viva la rete di contatti di antichi e fidi patrioti, allarmati dall'attivismo di chi attizzava proteste, scioperi e insorgenze (come a Santa Libera) in vista di un evento rivoluzionario da coronare con l'irruzione dell'Armata Rossa, chiamata a imporre il nuovo “ordine sociale” dettato da Stalin nell'Europa orientale: rullo compressore completo di stragi e violenze di massa spesso paragonabili a quelle perpetrate dalle armate hitleriane. Come emerge da una documentazione imponente e inconfutabile, anche in Italia molti “rossi” miravano all'annientamento della “borghesia”, come di monarchici, liberali e “idealisti”, spesso poveri in canna ma sempre fedeli all'idea di Patria, che non è “a noleggio”, né un’etichetta di “movimenti”.

Un “busto” in ombra: fino a quando?

D'improvviso, la figura e l'opera del Maresciallo vengono ora poste in discussione sulla base di alcune carte pubblicate da Mario J. Cereghino e Giovanni Fasanella in Le menti del doppio Stato (ed. Chiarelettere). Anziché vagliarne l'attendibilità e contestualizzarne generi e contenuti, talune associazioni che si ergono a depositarie della Verità si sono affrettate a trarne pretesto per demonizzare Messe quale stratega occulto della tanto celebre quanto leggendaria FODRIA (acronimo di Forze Oscure della Reazione in Agguato, brillante invenzione di Guareschi). Eppure proprio Cereghino e Fasanella (con la benedicente prefazione di Giuseppe Vacca, già direttore dell'Istituto Gramsci) argomentano e concludono che Churchill e Stalin non volevano affatto un'Europa democratica ma intendevano spartirsela in zone d'influenza, tagliando fuori gli Stati Uniti d'America. Per il futuro dell'Italia Stalin non puntava sull'accomodante Palmiro Togliatti ma su Pietro Secchia, Luigi Longo e Vittorio Vidali: insomma sull'“ala militare” del Partito comunista d'Italia, che “il Migliore” cercò di trasformare in Partito nuovo, caleidoscopico proprio perché “di massa”. Puntava alla convivenza con i cattolici per liquidare gli antefascisti (liberali, demosociali, radicali...) e anche molti antifascisti, come Randolfo Pacciardi, sino all'“ala destra” del Partito d'azione, guidata da Ugo La Malfa e Ferruccio Parri. Togliatti contava sulla tacita intesa con il democristiano Alcide De Gasperi che agognava a rastrellare i voti dei monarchici, dopo averli resi orfani del Re. Chi, come Messe, vi si oppose difendendo lo Stato sorto dal Risorgimento e dall'unificazione nazionale va cancellato dalla memoria? Naturalmente su di lui, come su Edgardo Sogno e altri, si accumularono tante “informative”, che valgono come quelle dell'Ovra: vanno lette con beneficio d'inventario e “decrittate”, non prese per oro colato.

Ridotto all'osso, il “caso Messe”, ora strumentalmente aperto da alcuni facinorosi della memoria, è tutto lì: monarchico, liberale e cattolico, nel dopoguerra egli fu eletto senatore sotto l'insegna della Democrazia Cristiana (1953: come il generale Raffaele Cadorna, già Capo del Corpo Volontari della Liberazione), poi deputato nelle file del Partito monarchico popolare (primo dei non eletti nel 1958 entrò a Montecitorio nel 1961) e infine in quelle del Partito liberale italiano (1963-1968). Messe ebbe dunque i voti di democristiani, monarchici e liberali negli anni da De Gasperi ad Aldo Moro, dei liberali da Luigi Einaudi a Giovanni Malagodi e, aggiungiamo, dei socialdemocratici da Giuseppe Saragat ad Antonio Cariglia. Costoro furono tutti golpisti o collusi con il leggendario “doppio Stato”?

Per essere oggi degni di ricordo pubblico è proprio necessario aver avuto la tessera del Partito comunista d'Italia e dei suoi succedanei o averlo fiancheggiato o, almeno, non averlo avversato? La questione posta da chi vuol dipingere un “Messe Nero” anziché un patriota insigne, quale egli fu, non è “di parte” ma storiografica. Chi nel 1943-1946 si schierò per la conservazione della forma monarchica dello Stato è soggetto alla perpetua damnatio memoriae? E chi oggi ha diritto di pronunciarla?

Non solo. Poiché nel citato libro Cereghino e Fasanella prospettano l'appartenenza alla massoneria quale indizio di collusione con le trame più oscure, ricordiamo che il 3 giugno 1919 il tenente colonnello Giovanni Messe, comandante del IX Reparto d'Assalto degli Arditi, antico apprendista muratore, venne iniziato massone nella Loggia “Michelangelo” di Firenze, con diploma ne varietur n. 53.738. Se essere massoni e fedeli alla Corona è un demerito, allora non  solo va oscurato il busto di Messe ma vanno allora demoliti tutti i monumenti di Giuseppe Garibaldi. L'Eroe per antonomasia indossò la divisa di generale dell'Armata Sarda, per insegna ebbe “Italia e Vittorio Emanuele”, fu acclamato Primo massone d'Italia e venne eletto gran maestro effettivo del Grande Oriente nell'estate 1864.

Prima di inventare un “Messe Nero” è bene studiare e capire la storia d'Italia e magari ricordare che nel 1948 il Fronte Popolare socialcomunista (Togliatti-Nenni) assunse per insegna proprio Garibaldi...

Aldo A. Mola

DIDASCALIA FOTO:  Il generale Antonio Zerrillo rievoca il Maresciallo Giovanni Messe al convegno di Vicoforte presieduto dal segretario della Consulta, Gianni Stefano Cuttica.

 

© Copyright. Tutti i diritti riservati.

Per offrirti il miglior servizio possibile questo sito utilizza cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego in conformità della nostra Cookie Policy.