Quando Manzoni scrisse a Donald Trump (di Domenico Urgesi)

La peste di Milano del 1630 è stata esaminata da molti punti di vista,

da quello medico, politico, religioso, filosofico, storico; sia durante che dopo la stessa epidemia. Il punto di vista forse più onnicomprensivo è considerato quello di Alessandro Manzoni, il quale ne scrisse due secoli dopo (nei Promessi sposi e l’acclusa Storia della colonna infame), dopo aver svolto una approfondita ricerca sulle cronache coeve all’epidemia, sulle fonti archivistiche, sugli studi più aggiornati. Non è il caso, qui, di dipanare la questione, incidentalmente sollevata da Benedetto Croce e poi affrontata da una miriade di studiosi, se Manzoni sia stato uno storico nel senso che il filosofo napoletano intendeva. Basti dire che una interminabile bibliografia ha ormai assodato che l’uso letterario dell’effettivo fatto storico da parte di Manzoni non costituisce un’alterazione o diminuzione degli eventi, bensì una magistrale riflessione sugli stessi. Come dire: dal certo storico al vero letterario.

Uno degli aspetti che vogliamo considerare oggi è l’attenzione che Manzoni, attingendo dalle cronache coeve di grandi medici come Giuseppe Ripamonti e Alessandro Tadino, poneva sulle differenti visioni degli esperti di sanità: c’erano quelli che minimizzavano (“è una delle soliti febbri cicliche”) e quelli che se ne intendevano veramente e dicevano chiaramente che si trattava di peste (Ludovico Settala, per esempio, che si era incontrato con Epifanio Ferdinando nel 1616). Ad affiancare i medici che negavano la peste, c’erano gli avvocati “Azzeccagarbugli”; e mentre le autorità emanavano (lentamente) divieti e chiusure, molti azzeccagarbugli si applicavano al loro storico compito (così il Manzoni) di aiutare quelli che volevano aggirare quei divieti.

Il Tribunale di Sanità, che allora era il Ministero della salute (nella parte della Lombardia che costituiva il Ducato di Milano; l’altra parte apparteneva alla Repubblica di Venezia), ci mise un po’ a convincersi che la peste era una malattia contagiosa; allora, informò il Governatore Spinola, il quale era occupato nell’assedio della “povera” (così il Manzoni) Casale Monferrato. Nel frattempo, tra molte critiche, diede ordine… ma ascoltiamo cosa scriveva circa due secoli fa, il Manzoni:

Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l’ira e la mormorazione del pubblico […] persuasi, com’eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto. 

La voce del popolo – aggiunge Manzoni – era tanto forte che

L’odio principale cadeva sui due medici; il suddetto Tadino, e Senatore Settala, figlio del protofisico [Ludovico]: a tal segno, che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. 

Sorprendente, no? Se proviamo a cambiare i nomi dei medici, e al posto di Tadino e Settala scriviamo Anthony Fauci, non vi sembra che le parole di Manzoni siano di tremenda attualità? Ma chi è Anthony Fauci? Se vi è sfuggito, è il virologo scelto dal presidente americano Trump come consigliere sull’epidemia del coronavirus. Lo scienziato ha consigliato al riluttante presidente di prendere, più o meno, le stesse decisioni che sono state prese in Italia. Trump è stato tentato di licenziarlo, i suoi più stretti collaboratori lo hanno trattenuto, ma ormai i suoi fan si erano scatenati: Fauci è stato minacciato di morte dagli stessi sostenitori di Trump, che sono scesi in piazza armati fino ai denti. E il suprematista Trump ha dovuto dare a Fauci una scorta armata per difenderlo. Questo, almeno, ciò che è avvenuto fin qui (21 aprile); quello che avverrà nei prossimi giorni, non sappiamo. Il darwinismo sociale sta ritornando prepotentemente.

Ora, è possibile che le stesse scemenze che venivano fatte nel 1630, vengano fatte nel 2020? Ebbene sì, ma proprio nello stesso modo: infatti, Trump non si fa mancare proprio niente. Vediamo, cosa dice sempre il Manzoni, sulla “caparbietà” a non voler riconoscere “la ragione e l’evidenza” (corsivo nostro):

Coloro i quali avevano impugnato così risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare una strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo attribuirlo a que’ mezzi (che sarebbe stato confessare a un tempo un grand’inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a trovarci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse messa in campo. Per disgrazia, ce n’era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni parte d’Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe. Già cose tali, o somiglianti, erano state supposte e credute in molte altre pestilenze, e qui segnatamente, in quella di mezzo secolo innanzi. S’aggiunga che, fin dall’anno antecedente, era venuto un dispaccio, sottoscritto dal re Filippo IV, al governatore, per avvertirlo ch’erano scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi: stesse all’erta, se mai coloro fossero capitati a Milano. (sottolineature nostre).

Se ai “quattro francesi” sostituiamo “quattro cinesi”, oppure “stranieri”ecco che la storia si ripete; solo che, nel 1630, predominava la superstizione; e il Ducato di Milano non era la superpotenza tecnologica che sono gli USA.

“In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro”.

Così Manzoni concludeva il cap. 31 dei Promessi sposi, a futuro monito per tutti i Trump di questo mondo, compresi vari politici italiani che da almeno un secolo pretendono di imporre al Popolo Italiano la loro ignorante prepotenza. E purtroppo dimostrano, nei fatti, di essere solo degni dell’esecrazione che a loro già tributava il Sommo Scrittore.

Domenico Urgesi

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